Recensione: Showdown

Di Milo Casotti - 25 Maggio 2013 - 16:17
Showdown
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Anno: 2013
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80

Conoscere e imparare dal passato, è un modo per costruire il futuro: i Voodoo Highway sono degni rappresentanti di questa significativa definizione.

I cinque giovani musicisti di Ferrara sono stati definiti non a caso i nuovi Deep Purple, niente meno che da Craig Gruber, già bassista di Elf, Rainbow e Gary Moore. Ed in effetti alla loro musica non manca nulla di tutto ciò che può servire nel rendere appetibile la proposta a chi da sempre è fan del genere: c’è la Stratocaster, l’organo hammond, una voce potente con una buona estensione e pure un’ottima cover, realizzata da Storm Thorgerson, importante designer britannico autore delle copertine di Pink Floyd, Led Zeppelin, Syd Barrett e di molti altri grandi gruppi passati e presenti.
È assolutamente positivo e da rimarcare insomma, il forte legame del quintetto con le radici rock più solide ed amate dalla tradizione: quando una giovane band riesce a portare avanti discorsi iniziati quaranta anni fa, trovando grande ispirazione ed energia nel riproporre elementi del passato – anche se in qualche modo rinnovati – ed ha successo nell’evitare un piatto e sterile adeguamento alle facili mode del momento, non si può far altro che prodursi in elogi ed attestati di stima.
Diciamola tutta: se “Showdown” (titolo già di per se emblematico), fosse uscito almeno due decadi fa, i Voodoo Highway forse avrebbero girato il mondo assieme ad Europe, Twisted Sister e Skid Row.

La seconda fatica discografica del combo estense, infatti, è un album graffiante, veloce e vigoroso, modellato su di un songwriting che non dimentica la melodia e le hookline di facile ascolto, ove riff Hard Rock si accompagnano con refrain orecchiabili, ed in cui la voce di Federico Di Marco mantiene la leadership assoluta.

L’esordio del disco a carico della ruvida e significativa “This Is Rock’n’roll, Wankers!” funge da dichiarazione d’intenti, ampliando – ove possibile – i già buoni auspici maturati con “Broken Uncle’s Inn”, debutto uscito nel 2011: un bel giro di chitarra è la pietra angolare di una linea armonica sulla quale si erge imponente la voce acuta di Federico Di Marco, per una composizione che in qualche modo richiama alla memoria la storica intro di “Highway Star” dei Deep Purple.
Una partenza destinata a proseguire con uguale efficacia in “Fly To The Rising Sun”, altro frammento di puro Rock in stile seventies dall’approccio tanto classico quanto gradevole.
È quindi la volta di “Midnight Hour” e “Could You Love Me”, passaggi che – a testimonianza di un legame con i “grandi” semplicemente inscindibile – rimembrano rispettivamente gli stilemi cari a Van Halen e Savatage, la seconda in particolar modo, in virtù di un’atmosfera raffinata in cui ceselli di pianoforte si incastonano con eleganza, per poi proseguire in modo più complesso ed articolato.
Davvero degno di nota anche il lavoro alla batteria di Vincenzo Zairo, perfetto ed essenziale lungo tutto il percorso descritto dall’album: forse non proprio “creativo”, ma davvero preciso in ogni frangente.

“Wastin’ Miles”, prosegue la seconda opera dei Voodoo Highway, profilandosi come il tipico brano “on the road” da ascoltare a gran volume in auto: la partenza con l’accensione di un motore e l’nconfondibile suono di una radio che introduce il tema portante, sono un invito chiaro all’immaginazione che subito ne percepisce il contesto e l’atmosfera, contribuendo a definire quello che può essere considerato come apice qualitativo di “Showdown”.
Meno grandiosa ma parimenti efficace, la successiva “Church Of Clay”, traccia che si inerpica in una linea melodica dal ritmo molto veloce e dal “tiro” graffiante.

Siamo già abbondantemente nella seconda parte del cd quando irrompe “Mountain High”, bel momento elettrico e purpleiano, dal refrain che rimane impresso nella mente come un tormentone. La successiva “Cold White Love” è invece un chiaro riferimento ai Rainbow per via di un ritmo cadenzato e settantiano su cui svetta un hammond che ben si lega al riff di chitarra.
Qualche minima concessione ad un taglio stilistico più moderno si manifesta con “A Spark From The Sacred Fire”, episodio schietto ed urgente con ritornello filtrato ed un coro da airplay che, per una volta, rivela affinità maggiori con le formule rock ottantiane.
Chiudono l’album “Prince Of Moonlight”, classico hard rock in pieno stile Voodoo Highway (ancora voce filtrata), in cui riconoscere un’efficace miscela tra vecchio e nuovo, capace di mettere d’accordo Purple, Rainbow e Alter Bridge (inequivocabile in ritornello), ed una coppia di bonus track – “’Till It Bleeds” e “Broken Uncle’s Inn” – rifacimenti tratti dal precedente capitolo discografico.

Poco da aggiungere in conclusione: il secondo lavoro dei Voodoo Highway è un album che dimostra in pieno le potenzialità di una band giovane, eppure già matura e certa dei propri mezzi, rivelandosi eccellente vetrina al fine di mettere in mostra un gruppo capace di comporre ottimi brani con arrangiamenti studiati in modo accurato. Al contempo, un nucleo di musicisti che riesce a comunicare grande istintività e passione per la propria musica, esattamente come accadeva con le vecchie, grandi, glorie dell’hard rock storico.

Non siamo ancora al capolavoro. Ma avanti di questo passo…

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