Recensione: Shrine Of New Generation Slaves

Di Tiziano Marasco - 22 Gennaio 2013 - 0:00
Shrine Of New Generation Slaves
Band: Riverside
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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86

Quattro anni sono una lunga attesa, soprattutto se si tratta di aspettare la nuova release di una band come i Riverside: giungono con questo Shrine of new generation slaves al traguardo del quinto full length, album che ha sulle spalle il difficile compito di confermare le ottime impressioni suscitate dagli episodi precedenti, siccome di bissare il successo del fortunatissimo Anno domini high definitions. Un disco che era stato un punto di rottura per il quartetto polacco, marcato da un decisivo cambio di sonorità siccome da un insospettabile trionfo di pubblico, coronato dal primo posto nella chart polacca. Ma successo e progressive rock non si escludono a vicenda, come insegnano i Dream Theater (per non fare esempi più eclatanti) ed è lecito aspettarsi che ricevere un disco d’oro nel paese dei Behemoth non abbia fatto perdere il lume della ragione ad una band dalle qualità indiscusse.

D’altro canto è indiscutibile che anche il primo impatto col nuovo nato di Duda e soci lasci quantomai perplessi. Perché se Anno Domini aveva rappresentato un cambio importante per i nostri, il nuovo album è un’autentica metamorfosi, sicché avrete l’idea di trovarvi innanzi a tutt’altro gruppo. In particolare, l’evoluzione dei nostri si sente a livello di songwriting, molto più asciutto e, se possibile, maturo. Sin dalla opener, New generation slave, le trame sonore si fanno ancora più semplici e molto, molto meno heavy, rifacendosi ancora ai Porcupine Tree, ma a quelli di Fear of a blank planet, mischiate a certo alternative rock americano, agli svedesi Beardfish ed ai tedeschi Sylvan. Cambia decisamente anche il modo di cantare di Duda, non più stiracchiato ed improntato a modelli wilsoniani; al contrario, chiaro e deciso, fa venire in mente a tratti, e nel tono e nello stile, Brandon Boyd nei suoi momenti migliori. A giovarne sono le liriche (immediate e facili da comprendere) così come il messaggio stesso del disco che tratta, con buone probabilità, il conflittuale rapporto tra i Riverside stessi ed il successo inaspettatamente raggiunto. Dalla opener, che tratta di un individuo libero di fare ciò che vuole e per questo preda dell’inedia, fino all’ottima Celebrity Touch (this is just what i need to be in everyone’s eyes), rabbioso primo singolo. Dalla rarefatta We got used to us, con il suo piano scarno e i cori avvolgenti, fino a Feel like falling, dotata di un groove micidiale (la base è simile a Let forever be), dominata da atmosfere insolitamente allegre per la band, tipo Four chords that made a million.     

Progressive pop? Forse, sebbene titoli come Wish you where here, Impressioni di Settembre o Solitary shell dovrebbero ricordare che il connubio tra i due generi non è del tutto campato in aria.

Ma questo disco ha anche un’altra anima, quella delle canzoni dal minutaggio più corposo, laddove predomina una psychedelia atmosferica ed introspettiva, figlia ancora dei nuovi Porcupine tree, dei nuovi Opeth (prima di Heritage), dei Gathering emozionali, degli Antimatter ma anche degli anni settanta. Così prende forma la malinconica The depth of self, che pur rimanendo un brano di semplice assimilazione conquista al primo ascolto grazie ad un ottimo riff e a chitarre lamentose. Così prende forma la tenebrosa Deprived, decisamente devota al trip rock, impreziosita da tastiere sognanti e da un ottimo sax, strumento che negli ultimi anni sta prendendo sempre più spazio in ambito metal e nei suoi dintorni. Nasce anche la magnificente conclusione di Escalator shrine che, assai ispirata agli ultimi Opeth o ai Beardfish, si rivela come il brano più progressive in senso stretto, con buone divagazioni psychedeliche e trame leggermente più intricate, fino del catartico coro conclusivo.     

Ce ne sarebbe abbastanza, non fosse che questo disco ha il grandissimo pregio di regalare emozioni ad ogni ascolto, svelandosi poco a poco. Dunque anche nelle composizioni semplici, seppur dominate da melodie radio-oriented, noterete che il background progressive c’è ancora, e che la struttura non è affatto semplice come potrebbe apparire. Ancora, nonostante la miriade innumere di influenze esterne, i Riverside mantengono una loro identità ben definita, laddove la trilogia era votata a reinventare lord Wilson ed Anno domini seguiva con certo rispettoso distacco il verbo di Daniel Gildenlöw.   

I figli di Lech colpiscono ancora insomma, aprendosi con Shrine of new generation slave infiniti percorsi di evoluzione futura. La rottura con i fasti del passato è profonda e può destare diverse perplessità ad una prima analisi, tuttavia con il passare del tempo l’album si svela poco a poco per un disco suggestivo e vincente, sorprendendo ad ogni nuovo ascolto. Riunisce al suo interno le due essenze del progressive vero e proprio: da un lato la costante ricerca di nuove vie, dall’altro la capacità di far sembrare semplice ciò che in realtà è difficile, secondo la lezione dei classici.   

Se questo è l’inizio abbiamo buone speranze che il 2013 sia un anno da ricordare.   

 

Tiziano “Vlkodlak” Marasco  

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Tracklist
New Generation Slave (4:17)
The Depth of Self (7:39)
Celebrity Touch (6:48)
We Got Used to Us (4:12)
Feel Like Falling (5:17)
Deprived (8:26)
Escalator Shrine (12:41)
Coda (1:39)        

Line up
Mariusz Duda – basso, voce, chitarra acustica
Piotr Grudzi?ski – chitarra
Piotr Kozieradzki – batteria
Micha? ?apaj – tastiere, cori

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