Recensione: Siege Perilous

Di Mattia Di Lorenzo - 24 Marzo 2007 - 0:00
Siege Perilous
Band: Kamelot
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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73

In un’intervista di alcuni anni fa, Thomas Youngblood, chitarrista dei Kamelot, così commentava i primi tre cd: “Con “Eternity” eravamo ancora piuttosto inesperti, per cui le canzoni, seppur buone, non sono uscite come avremmo voluto. Con “Dominion” ci sono stati vari problemi a livello di line-up: in generale la situazione era tesa e penso che il feeling del disco ne abbia risentito. “Siege Perilous” è invece un disco di transizione: Roy è entrato nella band che il lavoro di registrazione era in pratica già concluso, e ha avuto solo tre settimane di tempo per imparare tutte le sue parti e registrarle! (…)”.
Disco di transizione, “Siege Perilous”, così lo definisce lo stesso leader della band. Direi che sono d’accordo. I nostalgici, che preferiscono il sound più ricercato ed elitario, iniziano già da qui a rimpiangere “Eternity” e “Dominion”; chi invece ama di più la nuova ricerca del gruppo (come il sottoscritto) coglie in “Siege” degli ottimi spunti, ma si rende anche conto della sua generale immaturità. Ma è meglio essere più precisi: più che di immaturità, visti gli sviluppi anche nell’immediato, si può parlare più che altro di sperimentazione di un nuovo linguaggio, che, se porta ad alcune canzoni veramente pregevoli, in alcuni casi è accompagnato da esemplari pecche nel songwriting.
Il difetto più grave di questo terzo full-length risiede soprattutto nella produzione, decisamente arrangiata e assai poco professionale se paragonata al precedente “Dominion” (per non parlare di un certo Sascha Paeth che arriverà a illuminare il tragitto della band di lì a poco…). In certi momenti il missaggio appare completamente sbagliato, con tastiere troppo preponderanti rispetto alle chitarre (come in “Millenium”), voci secondarie e coretti troppo enfatizzati in confronto alla voce di Khan – troppo ovattata – che in alcuni tratti pare addirittura al limite dello stonato. Possibile? Certamente no! Un orecchio esperto riesce a riconoscere comunque un’interpretazione abbastanza ricercata e convincente, nonostante il poco tempo a sua disposizione per imparare le canzoni… Ma l’impressione globale è quella che si ha ascoltando un demo autoprodotto e nemmeno registrato molto bene. Per non parlare dell’osceno e banale errore commesso nella tracklist: le tracce reali sono disposte in modo diverso da quanto indicato sul disco. “Rhydin” è infatti in sesta posizione, anticipata di due rispetto a quanto scritto. Seguono “Parting Visions” e “Once a dream”.
In effetti oltre che “disco di transizione”, sarebbe altrettanto corretto definire “Siege Perilous” un vero e proprio “demo”, in quanto momento di ricerca e di affiatamento per una nuova band, che, dopo l’uscita di due founder, ha in Youngblood il suo leader storico, e in Khan e Grillo le future cime. Detto tutto ciò, in un modo quasi fin troppo denigratorio, passiamo all’analisi delle tracce che, comunque, sono molto interessanti tanto nei pregi, quanto nei difetti.

Niente introduzioni strumentali: qualche accordo di atmosfera, e si parte subito con “Providence”. Lo stacco dai cd precedenti è immediatamente evidente, dall’assoluta melodicità della canzone e dalla produzione scadente, che produce strane dissonanze tra il cantato di Khan e i cori. La canzone procede comunque lineare, su tempi medio-bassi, senza emergere particolarmente né in positivo, né in negativo. “Millenium” è la canzone coi peggiori effetti di missaggio, tanto da risultare in certi punti quasi inascoltabile… Ma, contemporaneamente, è anche la più ispirata dell’intero disco, con un refrain particolarmente riuscito e struggente. Forse non ci sono motivi oggettivi per dire questa cosa, ma mi è capitato di ascoltare questa canzone e continuare a canticchiarla per tutto il giorno (di solito questo è un ottimo criterio di bontà, per me, molto più che teorie musicali e dimostrazioni scientifiche). La versione non le rende affatto giustizia, comunque. E nemmeno quella in “The Expedition”, ad essere sinceri: se lì la voce di Khan splende in tutta la sua luce, mancano completamente i cori, che sono fondamentali. Peccato. “King’s Eyes” è un altro mezzo capolavoro, sostenuto questa volta da una migliore sorte produttiva. Riff iniziale accattivante, strofa e ritornello del miglior power, passaggio centrale in tempo composto, break lento sullo stile delle migliori ballad: gli elementi del successo ci sono tutti.
Sorte più incerta per “Expedition”, title-track del successivo live album. L’inizio spumeggiante lascia ben presagire, ma il resto della canzone è particolarmente lento e cantilenante, e, stavolta, non particolarmente espressivo. Lo stile ricorda un po’ quello di certe canzoni di “Eternity”: i nostalgici proveranno un brivido, ma la forma della canzone è alquanto ibrida, il ritornello non particolarmente definito. E anche live non è sto granché. Primo tentativo per un linguaggio diverso: poco riuscito.
Le dolcissime note di flauto, all’inzio di “Where I reign”, ci ricordano l’argomento medievale cui è ispirato l’intero lavoro. Si tratta di un concept sull’argomento di “siege perilous”, appunto: è la “sedia pericolosa”, quella che, secondo la leggenda, doveva sempre rimanere vuota nella Tavola Rotonda di re Artù, finché non fosse venuto a reclamarla il cavaliere del Santo Graal. Quello antico-medievaleggiante è un altro aspetto di questo album, poi ripreso nei successivi. Stavolta, esperimento riuscito. “Rhydin” è una canzone di passaggio, forse ispirata al gioco di ruolo fantasy “RhyDin”. Lo stile, diretto e pesante, ricorda alcune canzoni heavy dei Manowar. Molto interessante la zona centrale dei soli, in tempo ternario. “Parting Visions” mette in mostra il carattere “nordico” della band, con accompagnamenti insistiti e preponderanti di tastiera e organo. Nel complesso è un’ottima canzone, molto Kamelot soprattutto nel ritornello splendidamente cantato da Khan. “Once a dream” è un altro momento sperimentale interessante, ma alquanto caotico. Si parte con qualche sparuta nota di clavicembalo, che è quanto di più Stratovarius possa esistere. Poi, quasi pentita della citazione troppo spudorata, la canzone ripiega in una dolce ballad. Qua e là si infilano, in modo alquanto casuale, pesanti accordi di chitarra distorta, o note di classica. Il ritornello è sensuale, ma forse un po’ troppo lezioso. Subito dopo, ecco ricomparire il cembalo; ma non riprende il tema dei primi secondi, che diventa così un enigmatico “fantasma”, bensì ne effettua un altro, completamente diverso. Sembra quasi che il gruppo abbia preso più idee musicali e le abbia mischiate in un calderone indistinto. Realtà o fantasia?
Irea”, sfacciatamente fantasy, è l’ultima traccia cantata del disco. Particolarmente azzeccato soprattutto il ritornello, che resta in mente per la sua aperta ariosità contrapposta alla cupezza del resto della canzone, che è tutta impostata su uno schizofrenico monologo-dialogo dell’io narrante con se stesso (retoricamente efficace, quanto stra-barocca, l’affermazione-domanda “Who I am, who am I?”). La title-track finale, “Siege”, è il maggiore azzardo del disco. Già finire con un brano strumentale è una cosa inusuale. E che brano! Nella sua complicazione-insensatezza di composizione, appare quasi un pezzo prog spinto: archi di accompagnamento in tempo binario aprono su un primo solo di chitarra elettrica. All’aumentare del ritmo, il tempo si rivela in realtà ternario-composto. Le tastiere poi riprendono il tema… Ma tutto cambia di nuovo, e parte un altro solo in un incredibile tempo dispari “5+6” degno dei migliori “Dream Theater”. Per non parlare del solo-follia successivo di chitarra classica, che scompare misteriosamente nel nulla…

Devo dire altro? Inutile ripetere quanto già detto nell’introduzione. Concludo aggiungendo che comunque il cd non è poi così male come Youngblood e soci stessi lo dipingono. Mio personale desiderio sarebbe che la band tornasse sui primi tre album, e in particolare su questo “Siege Perilous”, per farne una nuova edizione, alla luce della maturità artistica raggiunta e con una produzione degna di questo nome. Non c’è nulla di peggio che dimenticare le proprie origini. E se i Kamelot di oggi hanno una e una sola pecca, è appunto questa.

Tracklist:
1. Providence 
2. Millennium 
3. King`s Eyes 
4. Expedition 
5. Where I Reign 
6. Parting Visions 
7. Once a Dream 
8. Rhydin 
9. Irea
10. Siege

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