Recensione: Sign Of The Dragonhead

Di Marco Tripodi - 12 Gennaio 2018 - 8:00
Sign Of The Dragonhead
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2018
Nazione:
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64

C’era una discreta attesa per il primo album dei Leaves’ Eyes post terremoto mediatico del 2016, anno nel quale tra Liv Kristine e la band è avvenuta una separazione non proprio all’acqua di rose. Entrambe le parti hanno sostanzialmente addossato la colpa all’altra metà del campo. Non sapremo mai se effettivamente Krull e Bauer abbiano defenestrato impunemente Liv o se invece sia stato l’angelicato usignolo di Stavanger a stringere un legame un po’ troppo intimo con il proprio psicoterapeuta, il quale pare abbia avuto un certo peso nel deterioramento dei rapporti tra l’ex moglie di Krull e i Leaves’ Eyes. E tutto sommato poco ci interessa, questa è roba da Metal Novella 2000. Stiamo alla musica. Neanche questo è facile con i Leaves’ Eyes però, poiché da tempo – direi perlomeno a partire da “Meredead” (2011) – i nostri hanno intrapreso un processo che pare irreversibile. Album prodotti magnificamente, impacchettati secondo le direttive dei più scafati teorici del marketing d’assalto, artwork favolosi, videoclip cinematografici, edizioni digipack deluxe con gadget e parafernalia vichinghi in omaggio, EP sfornati a ritmo da catena di montaggio per non far decantare neanche un attimo il marchio; insomma un attacco incessante ai recettori di dopamina del pubblico (e soprattutto al portafoglio dei fans). Quello che intendo dire è che i Leaves’ Eyes hanno sempre più spostato la propria area di interesse sulla forma anziché sulla sostanza. Già perché poi, concentrandosi sulla musica (che dovrebbe essere il motivo per cui la band esiste), la curva si fa ahimé discendente.

I Leaves’ Eyes nascono come progetto squisitamente gothic, motivo per il quale ancora oggi c’è chi li cataloga erroneamente come tali. Ma la cittadinanza gotica dura lo spazio esclusivo dell’album di esordio (“Lovelorn“, 2004), per altro bellissimo. Con il successivo “Vinland Saga” i tedeschi scoprono il giochino della mitologia norrena e della vichinghitudine, forti del passaporto di Liv Kristine. La band stessa nasce come un omaggio alla cantante, il monicker è chiaramente un gioco di parole che echeggia il suo nome, “Lovelorn” è un inno alla sua sensualità (si guardi il videoclip di “Into Your Light“) e l’amore per i popoli del nord è credibile perché la Espenaes è norvegese. Mi si dirà: “beh, nella line-up dei Nile mica militano degli egiziani!“, vero, tuttavia per quanto detto sin qui, appare evidente come l’intero impianto dei Leaves’ Eyes avesse la sua ragione sociale per buona parte nella carta d’identità della front woman, alfa e omega spirituale di questa avventura. Giunti al 14° titolo pubblicato in appena 13 anni di carriera (live ed EP compresi, tralascio i singoli o facciamo notte), viene da chiedersi cosa siano i Leaves’ Eyes oggi. Musicalmente il gruppo ha saldamente intrapreso la strada del power folk metal, però quadratissimo, di stampo assai più tedesco che scandinavo. Le scalette dei vari album che si sono succeduti nell’ultimo lustro sono interscambiabili; prendete una qualsiasi traccia da “Sign Of The Dragonhead” e mettetela in “Symphonies Of The Night” o “King Of Kings“. Cosa cambia? Una cosa sola, Elina Siirala al posto di Liv Kristine. Quindi già con Liv Kristine i valori della band erano in flessione? Senza ombra di dubbio; non è certo colpa della cantante degli Angel Nation se lo smalto dei Leaves’ Eyes ha perso via via mordente. E però, stanti queste condizioni, l’estromissione di una delle più belle e carismatiche voci femminili del metal degli ultimi 20 anni non ha certo giovato, affossando ancora di più le quotazioni di una band sempre più sterile e pataccara.

Il London Voices Choir (quello de Il Signore Degli Anelli e Guerre Stellari) amplifica i corettoni epico-sinfonici dell’album, Victor Smolski ed il suo ensemble classico mettono altra benzina nel motore dei Leaves’ Eyes, oltre al consueto impiego sinergico di tastiere elettroniche digitali e strumenti folk analogici. Parrebbe essere un piatto estremamente ricco e finemente lavorato, e per certi versi lo è, nel senso che la cura produttiva messa nella realizzazione del disco è enorme e fuori discussione. Sono le canzoni a latitare, il cuore pulsante di “Sign Of The Dragonhead” è artificiale. Mi si perdoni il paragone un po’ blasfemo ma è come assistere ad un cinepanettone natalizio di De Laurentiis; l’impiego di mezzi è mastodontico, il budget realizzativo è degno dei blockbuster hollywoodiani, il cast è di prim’ordine, la sceneggiatura però è misera, scialba, di risate vere se ne contano pochissime, cosce e luccichii possono più di bei dialoghi. Per quanto si impegni, Elina non è in grado di ricreare la magia di Liv Kristine (nonostante una scollatura assai più ostentata), ora i Leaves’ Eyes hanno una ordinaria voce di stampo symphonic metal, uguale a quella di altre centinaia di band, niente che li distingua (più) dalla massa.

Raiders Of The Wind” ha una marcia in più (tanto da sembrare una cover di qualcuno), “Fires In The North” e “Waves Of Euphoria” sono carucce, ma siamo proprio al minimo sindacale per una band che oramai dovrebbe solcare acque auree, solide e sicure con il proprio drakkar. Invece “Sign Of The Dragonhead“, poco fantasioso sin dai titoli delle canzoni (“Riders On The Wind“, “Rulers Of Wind And Waves“, “Waves Of Euphoria“), è l’ennesimo disco fotocopia di una band che si è adagiata troppo presto. La sufficienza arriva più per “come” è realizzato l’album che per “cosa” contiene. Se siete a digiuno della discografia dei Leaves’ Eyes un qualsiasi loro platter potrebbe colpirvi favorevolmente, è il raffronto tra questo e quello che comincia a darvi la giusta prospettiva di cosa funzioni e cosa no, e soprattutto di come ad un certo punto sia fastidiosamente subentrato il pilota automatico, a dispetto di copertine sempre più sgargianti ed ospitate sempre più di lusso. Se volete pescare in modo mirato sui dischi più brillanti ed incisivi, fatto salvo il bellissimo debut vestito di pizzi, trasparenze e merletti gotici, rivolgetevi a “Vinland Saga” e “Njord“, difficile non preferirli a “Sign Of The Dragonhead” (e non solo, purtroppo).

Marco Tripodi

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