Recensione: Soliloquy

Di Fabio Vellata - 24 Gennaio 2012 - 0:00
Soliloquy
Band: Teodor Tuff
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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79

Monicker originale quello dei Teodor Tuff, interessante novità che ci arriva – come d’abitudine divenuta quasi ordinaria – dalle fredde, lontane e prolifiche terre delle nord.

A dispetto di quanto si potrebbe tuttavia supporre, nulla a che vedere con un ipotetico progetto solista, ne con il classico disco imperniato su di un gusto hard rock dai risvolti scandinavi.
Almeno, non nel senso a cui siamo stati abituati dalla storia recente.
I Teodor Tuff sono, in realtà, una vera e propria band di cinque elementi provenienti dalla Norvegia, autrice nel 2009 di un primo album passato praticamente del tutto inosservato e giunta con “Soliloquy” alla realizzazione della seconda fatica discografica sulla lunga distanza.
Un disco già edito in un primo tempo per il solo mercato Scandinavo, prima di essere reso disponibile nell’intero territorio europeo proprio nelle settimane iniziali di questo anno nascente.

Come dicevamo, qualcosa, una volta tanto, di leggermente diverso dalla radice AOR ed Hard Rock di estrazione nordica a cui abbiamo ormai fatto l’orecchio. Nulla quindi, che possa instradarsi sulla scia dei vari The Poodles ed H.e.a.t. o meglio ancora, per citare un gruppo di arditi conterranei, niente che vada nella direzione sbarazzina e selvaggia dei Wig Wam.
La proposta del quintetto norvegese predilige, infatti, addentrarsi nelle pieghe di una sorprendente quanto piacevole miscela di raffinato heavy dagli spigoli smussati, all’interno del quale porre in risalto elementi meditati e creativi cui non far mancare un pizzico di originalità, il tutto, racchiuso entro coordinate melodiche che nella maggior parte dei casi si mantengono orecchiabili e di facile ascolto.
Una combinazione come evidente, non facile da amministrare, per via di una necessaria ricchezza di particolari che, qualora eccessiva, tenderebbe ad appesantire troppo il songwriting, rendendolo prolisso ed ampolloso.

La brigata di musicisti originari del Trøndelag non sembra tuttavia essersi fatta intimorire più di tanto dal rischio, mettendo sul piatto un prodotto maturo, snello nella forma ed evoluto nella concezione, dagli evidenti riferimenti ad importanti esponenti del campo melodic metal come Masterplan, Leverage, Platitude, Savatage, Evergrey, e Sonata Arctica, rivistati però, in una chiave che riesce nell’intento di rivelarsi personale e non scontata.
Non una semplice, ossequiosa e pedissequa opera di copia e incolla, insomma, ma qualcosa di più elaborato e complesso, difficile da definirsi a parole quanto piuttosto brillante e gradevole all’ascolto.

Il risultato è un disco per lo più vario, dagli umori diversi e dai contorni di volta in volta in volta differenti: talora vicini al power, in alcuni casi riferibili al prog, molto spesso, dall’evidente ed insospettabile anima hard rock settantiana (null’altro che la solida base su cui era stato costruito il primo album) e qua e la, persino dai magniloquenti tratti sinfonico-operistici.

Una serie di composizioni in buona sostanza che, senza far necessariamente gridare al miracolo, sollazzano in modo alquanto piacevole, suscitando impressioni assolutamente positive e favorevoli un po’ su tutti i fronti.
Molto bella ed espressiva la voce del singer Terje Harøy, a tratti definibile come un incrocio tra le corde vocali di Russell Allen, Tom Englund e Jorn (!!!), ma ancor più d’impatto il guitar work offerto dalla coppia Knut Lysklætt e Christer Harøy (cugino del singer e fratello del bassista Rayner), prodiga di riff potenti e melodici.

In ogni brano si segnalano spunti di pregio e raffinata fattura. Per dovere di cronaca, urge tuttavia sottolineare il buon livello qualitativo di episodi come “Addiction”, “Mountain Rose”, “Deng’s Dictum” e “Mind Over Matter”, tracce dai cromati riflessi power prog in cui si condensano gli elementi di uno stile di composizione che sa rendersi accattivante e fascinoso, così come drammatico e tagliente, ma al contempo capace di apparire del tutto “amichevole” all’orecchio, grazie all’uso di ritornelli di facile presa ed a soluzioni melodiche di buon impatto.
Non mancano poi, una produzione dignitosa e ben amministrata, a cura di un professionista di sicura affidabilità come Jacob Hansen (già al lavoro con Pestilence e Volbeat) ed alcuni ospiti illustri, identificabili nelle persone del grande Jeff Waters, mastermind dei seminali Annihilator e Mattias Eklund, chitarrista di lungo corso, già ascoltato in innumerevoli album dei suoi Freak Kitchen ed in corpose collaborazioni con Evergrey, Soilwork e Fate.

Una bella scoperta piovuta dal nulla questi Teodor Tuff, un gruppo che sciorina un piglio già maturo pur non avendo un curriculum di particolare richiamo o un pedigree riconosciuto a livelli internazionali.
Mancano ancora i pezzi definitivi, quelli che traghettano un album dallo status di “buonissimo” a quello di “eccellente e superiore”, ma dati i presupposti, si può davvero ottimisticamente pensare che il quintetto norvegese abbia nelle proprie mani tutte le potenzialità per diventare in un prossimo futuro, un nome davvero influente e di notevole rilievo.

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Tracklist:

01. Godagar
02. The last supper
03. Addiction
04. Mountain rose
05. Hymn
06. Delusions of grandeur    
07. Heavenly manna
08. Deng’s dictum
09. Lullaby
10. Mind over matter
11. Tower of power

Line Up:

Knut Lysklætt – Chitarre
Knut Hellem – Batteria
Terje Harøy – Voce
Christer Harøy – Chitarre
Rayner Harøy – Basso

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