Recensione: Somewhere Else

Di Andrea Loi - 24 Aprile 2007 - 0:00
Somewhere Else
Band: Marillion
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2007
Nazione:
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79

A tre anni di distanza dall’ottimo “Marbles”, torna il gruppo che nei primi anni Ottanta ha risvegliato le attenzioni allora sopite di un genere come il prog, allora considerato “fuori tempo”, complici il cambio di decade e la disco music -senza dimenticare la rabbia punk- che fecero relegare in un perdurante oblio tutti quei gruppi che nei Seventies animarono la scena progressive e caratterizzarono un’ epoca. I Marillion furono la band che seppe imprimere l’ impronta più significativa al cosiddetto movimento Neo-prog. Col debutto Script for a Jester’s Tearnel del 1983, inaugurarono una felice stagione di successi, complice soprattutto (bisogna dirlo) il grande talento di Fish, cantante e paroliere del gruppo che seppe trovare l’ alchimia giusta e che di fatto, permettemi, pose un netto solco dal punto di vista compositivo rispetto agli schemi adottati anni prima dai mostri sacri (chi ha detto Genesis?) .
La forte componente melodica, la profondità delle tematiche trattate, il processo compositivo relativamente semplice e meno incentrato sui “contorsionismi” che di fatto hanno sempre caratterizzato il prog non possono relegare i Marillion a un ruolo di semplice band di contorno.
Misplaced Childhood, terzo album della band, fu -per chi scrive- l’apice artistico e uno dei capolavori del decennio: un manifesto di straordinaria intensità emotiva che porterà la band alla notorietà internazionale e a picchi creativi che non saranno mai più bissati. Il resto è storia.
Nel 1988 Fish lasciò il gruppo: di fatto si assistete a uno scisma che evidenziava da una parte la disperazione dei fan, dall’altra la consapevolezza che la band poteva avere ancora ragione d’esistere.
La cosiddetta “Era Hogarth” non ha il sentore della mediocrità e non vive di paragoni con un passato del resto irraggiungibile.

Vi risparmio ulteriori digressioni storiche per dirvi che mai come questa volta il gruppo “ha fatto da solo”: niente richieste di soldi anticipati ai fan (cosa che di fatto nel 2004 accreditò Hoggart & Co. come una delle realtà più atipiche del panorama internazionale). Se a tutto questo aggiungiamo un successo commerciale ritrovato e l’ interruzione del lungo sodalizio col produttore Dave Meegan, per delegare all’ingegnere del suono Michael Hunter la conduzione del nuovo album “Somewhere else”, non potrete che essere d’ accordo con me nel dire che la curiosità per il nuovo lavoro è cresciuta a dismisura.

La strada intrapresa col concept “Marbles” si è maggiormente attualizzata e colorata di atmosfere sognanti ed eteree dalle connotazioni romantiche e allo stesso tempo dal sapore pessimistico; forse quasi per dare una giustificazione a tematiche non troppo idilliache, incentrate sulla società attuale e anche velatamente autobiografiche: le contraddizioni, intrecciate con le vicende personali di Steve Hogarth, di un mondo votato all’autodistruzione, contrapposto all’innocenza infantile che molto probabilmente vivrà questo secolo come “l’ ultimo” della sua storia.
L’ album non raggiunge le vette compositive del precedente platter; non troviamo un’altra “The Invisible Man”, suite d’ apertura “coraggiosa” coi sui tredici minuti emozionali ed intensi, ma brani brevi e diretti dove le solennità di “The Other Half” e “See It Like A Baby” inaugurano il nuovo corso. Il Prog, nei 55 minuti di questo full-lenght, fa capolino solo in alcuni piacevoli frangenti. La title track è un tuffo nel recente passato e forse il miglior momento del disco, cadenzata e intimista, quasi rassicuramene nel suo incedere. Il gruppo, però, parafrasando il titolo dell’album, guarda “altrove”: attualizza la sua proposta musicale con la coraggiosa e ritmata quanto nervosa “Most Toys”, che evidenzia la volontà di inaugurare una nuova stagione compositiva, senza però rinnegare in modo netto il passato. E ancora, compaiono canzoni d’atmosfera, impregnate di momenti intensi inframmezzati da arpeggi evocativi, testimonianze di un marchio di fabbrica di assoluto valore: “A voice from the past”, “No such thing” e sopratutto la palpitante “The Wound” ci restituiscono lunghi attimi sognanti e significativi -quasi sussurrati- dove le atmosfere decadenti si intrecciano con squarci drammatici e passionali. E’ il filo conduttore della seconda parte del disco, ben evidenziato anche da “The Last of century Man”, più briosa e orchestrale negli ultimi passaggi, la quale con “Faith” -dolce e acustica, quasi spirituale e impercettibile nell’andamento- chiudono un disco piacevole, che non mancherà di stupire chi ha sempre seguito il gruppo, ma anche chi voglia decidere di prestare attenzione per la prima volta a una band che da un quarto di secolo ci regala grandi emozioni, come solo ai grandi riesce.

Track-list:
1. The Other Half
2. See It Like A Baby
3. Thank You, Whoever You Are
4. Most Toys
5. Somewhere Else
6. Voice From The Past
7. No Such Thing
8. The Wound
9. The Last Century For Man

Line-up:
Steve Hogarth – Vocals
Mark Kelly – Keyboards
Ian Mosley – Drums
Steve Rothery – Guitars
Pete Trewavas – Bass Lyrics: Hogarth

Produced: M. Hunter/ Marillion

Cover: Carl Glover

Andrea “ryche74” Loi

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