Recensione: Sonder

Di Alessandro Marrone - 20 Aprile 2018 - 12:00
Sonder
Band: TesseracT
Etichetta:
Genere: Djent 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Non è facile, nel 2018, inventare qualcosa. Il più delle volte ci si adopera ossessivamente per catturare l’attenzione, lasciando quasi per strada ciò che in realtà la musica deve saper offrire agli ascoltatori. Non è questo il caso degli inglesi TesseracT, i quali – giunti al loro quarto capitolo – “puntano tutto sul nero”, il lato oscuro, quello della vita vera, difficile e piena di ostacoli. Sonder, (che significa, appunto, la realizzazione del fatto che ogni persona abbia una propria storia) è l’album più breve del gruppo, ma non per questo privo di profondi significati e una performance strumentale e vocale di livello elevato. Il viaggio attraverso Sonder dura poco meno di 40 minuti, ma ti entra dentro perché il tuo subconscio aveva proprio bisogno di qualcosa di diverso rispetto al solito ed anche se le radici djent della band inglese si sentono, lasciano spazio ad aperture melodiche, quanto a riff granitici. Mentre ascolti le sofferte parole di Tompkins e la drammaticità con cui Sonder ci racconta la sua storia, capiamo come ogni singola strofa colpirà l’intimo di ognuno di noi, che, nel bene o nel male, nella oppressione o nella liberazione, ci farà distinguere porzioni delle nostre vite, raccontate da questi cinque messaggeri del progressive contemporaneo.

Il full-length si apre con Luminary che irrompe tra muri di chitarre ed un ritornello melodico, piazzato esattamente dove lo avreste immaginato. Le note si susseguono precise e disegnano un brano sincopato ed al tempo stesso potente. Un opener azzeccato che cresce ad ogni ascolto e introduce il messaggio dell’intero album. King è una delle canzoni più tormentate che possiate ascoltare e cela una musica fatta di riffing cupi ed un tempo marziale, perfetto contorno ad un testo ispirato e rassegnato all’incedere di un mondo che prova in tutti i modi a strapparci l’anima dal corpo. Possiamo considerare, invece, Orbital come un intermezzo, un delicato ed onirico viaggio nell’universo dei TesseracT che ci porta dritti dentro il ventre del disco, con uno degli episodi migliori dell’intero album. La successiva Juno, infatti, è dura come il granito, sa trasformarsi e trascinare i vostri sensi tra ritmiche sincopate, un basso vorticoso che si concede una parte in slap e uno sforzo vocale di Tompkins a dir poco straordinario. Metamorfica, sorprendente, intricata, bellissima e lontana da una qualsiasi etichetta o mera definizione. Beneath My Skin soffre e fa soffrire, come l’eterna battaglia contro il nostro destino, incontrollabile sino a quando ci rendiamo conto che l’insistenza non è altro che un modo per distrarci dal reale desiderio di vivere. La batteria realizza un mosaico sonoro e onirico che cresce sul finale, quasi emotivamente esausto ma libero. Se l’intera band riesce a dimostrare un’eccezionale maturità tecnica e stilistica, chi risplende – grazie anche ai testi ricercati e ricchi di significato – è proprio il singer Tompkins, che, lungo la delicata Mirror Image, è ancora una volta al centro dell’attenzione. C’è una ricchezza di sfumature che è difficile da spiegare a parole, un po’ come immaginare un incontro tra colori che, mescidati tra loro, riescono a creare qualcosa che i nostri occhi non hanno mai visto prima.

Arrivato fin qui sono più che soddisfatto di un disco che non mi sarei mai aspettato di apprezzare in questa maniera, ma al quale manca ancora qualcosa, una canzone che riesca a prendere la melodia di episodi più diretti come Luminary e King e li fonda con maggiore aggressività ed ancora più profondità compositiva… Ecco, però, che arriva Smile, il tassello mancante di un album compatto e artisticamente completo. È qui che i TesseracT affilano l’aggressività e la voglia di reagire, ampliando il range vocale e quello strumentale, sino a chiudere con la riflessiva The Arrow, che mestamente si arrende alla fine di tutto. Troppo tardi per ricominciare o per tornare indietro, proprio come una freccia ormai scoccata.

Sonder è esattamente come deve essere. Un arcobaleno oscuro che ci introduce nel mezzo di una riflessione sulla vita e su come sia in grado di farci inginocchiare davanti ad essa, interpretandone la fragilità e una storia che non attende altro che essere raccontata. La storia di Sonder è suonata e cantata magistralmente, senza autocelebrazioni (aspetto lontano dal mood che pervade l’album). Al primo ascolto non sarà possibile coglierne le sfumature, ma non richiede una dose eccessiva di attenzione, perché sa essere diretto e colpire prima di quanto vi immaginiate. Soltanto nel momento in cui entrerete in sintonia con le dolorose riflessioni dei testi riuscirete però ad afferrarne la vera essenza, a capire quelle numerose digressioni e quel ritmo quasi marziale, che incessante vi trascina dall’inizio alla fine. Non manca nulla, fatevi un favore: ascoltatelo.

Brani chiave: Luminary – Juno – Smile

 

 

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photos by Steve Brown

 

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