Recensione: Soul Of A New Machine

Di Daniele D'Adamo - 29 Ottobre 2007 - 0:00
Soul Of A New Machine
Band: Fear Factory
Etichetta:
Genere:
Anno: 1992
Nazione:
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80

Dopo la formazione del gruppo a Los Angeles nel 1990, con Soul Of A New Machine (prodotto da Colin Richardson) la leggenda dei Fear Factory ha ufficialmente inizio. La formazione con la quale viene inciso e poi dato alle stampe il loro primo full-lenght è la seguente: Burton C. Bell (vocals), Andrew Shives (bass), Dino Cazares (guitars) e Raymond Herrera (drums).

L’act californiano, in un periodo di gran fermento e fecondità del Death, nuova forma di Metal estremo, caratterizzano immediatamente la propria musica principalmente con tre segni peculiari: doppia voce di Burton C. Bell (parti in growl alternate a parti in clean), chitarra – mai impegnata a produrre assoli – suonata in maniera “meccanica”, e campionature di synthesizers deputate a tipicizzare il groove generale della musica verso visionarie atmosfere futuristiche, dai toni foschi e cupi.
Tutto ciò, a supporto dell’idea di Dino Cazares, inerente la costruzione di una macchina cyber-tech a supporto delle entità governative, e quindi mirate al controllo dell’Umanità.
Da notare, anche, che contrariamente alle produzioni successive, i numerosi (17) brani che compongono l’album sono di durata assai ridotta, mediamente intorno ai tre minuti se non di meno.

Ed infatti Martyr, primo brano del platter, mette in campo tutte le distintive caratteristiche musicali sopra descritte, con un suono pieno, potente, pulito, ed un ritornello orecchiabile e melodico cantato in clean da Burton C. Bell che, invece, nelle strofe, aggredisce il brano con un growl assai sentito e d’assalto. Con Leechmaster, si estrinseca lo stile di Dino Cazares, che sfodera il suo personalissimo modo di suonare la chitarra, cioè con riff potentissimi, pieni, reiteratamente meccanici nell’esecuzione temporale, in completa assenza di assoli. In Scapegoat, si può apprezzare la ritmica varia, completa e precisa di Raymond Herrera, a suo agio con ogni tipo di tempo; ritmica che, in sinergia con quella di Dino, forma compiutamente il senso di “meccanicità” del groove del platter. Bellissimi chorus e pre-chorus, totalmente orecchiabili, ove vige perenne il contrasto fra le parti in growl e quelle in clean cantate da Burton. Crisis, e ci si trova davanti ad un brano relativamente atipico, dove le varie componenti musicali caratterizzanti l’oramai ben definito “Fear Factory Sound” vengono mischiate e rese in maniera non lineare. Con Crash Test, irrompono prepotentemente le campionature dei sintetizzatori, che introducono un pezzo velocissimo e violentissimo. Poi è la volta di Flesh Hold, dalla partenza a razzo grazie ai velocissimi riff di chitarra propinati da Dino, accompagnati da una altrettanto rapidissima prestazione di Raymond dietro le pelli, che non disdegna di sfoderare poderose e precise parti in blast-beats. Con la settima canzone del disco, Lifeblind, cupe e tetre campionature elettroniche, combinate al riffing di Dino, formano un’atmosfera ove la componente umana sembra essere assente, e sulla quale sale isterico il growl aggressivo di Burton, che però non manca di proporre riuscite parti in clean. Scumgrief, ed arrivano a profusione i massicci ed “automatici” riff di Dino, con Burton fautore di armoniche linee vocali in clean melodico ed orecchiabile. Subito dopo, Natividad, semplicissimo brano strumentale, che però contribuisce a mantenere il senso musicale dell’album, con pesanti linee di synth a coprire angoscianti urla di voci femminili in sottofondo.

Con Big God/Raped Souls, introdotta da una urlante, delirante e filtrata voce, si arriva ad un brano ove viene sapientemente miscelata la doppia voce di Burton alla parte strumentale, poderosa e violenta. Immediatamente dopo, Arise Above Oppression: introduzione con uno stupendo e melodico (!) riff di Dino, che poi costruisce la matrice di base del pezzo con la solita meccanicità del suo personale stile. Poi, la canzone aumenta di velocità, raggiungendo punte elevatissime grazie ai poderosi blast-beats di Raymond. Il dodicesimo brano del platter, Self Immolation, comincia con una parte di basso di Andrew Shives distorta e dissonante, su cui poi s’innesta una desueta costruzione del brano, ove vengono mischiate parti lente a parti veloci, parti in growl a parti in clean, con una ritmica accidentata e non-lineare. Suffer Age, e il ritmo si fa oscuro, lento, tenebroso, quasi da colonna sonora da film horror. Successivamente, linee di chitarra su toni alti contribuiscono a creare un’atmosfera cupa e dissonante. Ma è questione di poco: immediatamente, parte inarrestabile una celerissima e dirompente onda di suono, che spazza via tutto e tutti. Si arriva quindi a W.O.E., dove si sviluppa in maniera tradizionale il groove caratteristico ed unico dell’act californiano. Quindicesimo pezzo del platter è Desecrate, iper-fast e dall’impatto devastante, dove Raymond ha occasione di proporre il suo drumming vario ma anche rapidissimo ed accidentato. Un vistoso rallentamento del ritmo nella parte centrale contribuisce a generare una sensazione di gravame, opprimente da togliere il fiato. Con la penultima canzone del disco, Escape Confusion, compaiono all’inizio strani accordi di chitarra non distorta, dal tono sinistro ed inquietante, tema che comunque viene mantenuto durante tutta la durata del pezzo, seppur costruito sulla base potente e massiccia prodotta dalla strumentazione elettrica e dalla batteria (velocissima e precisissima). Con Manipulation, infine, si chiude l’album con un brano nuovamente velocissimo e dalla ritmica accidentata, non-lineare, reso ancora più estremo dal cantato molto aggressivo in growl da parte di Burton, e dai ripetitivi, poderosi, riff di Dino.

Pur non presentando ancora tutte le caratteristiche che avrebbero reso veri ed indimenticabili capolavori gli album successivi a Soul Of A New Machine, i Fear Factory mettono già sul loro disco d’esordio gli embrioni della loro originalissima proposta musicale che, poi, si sarebbero sviluppati verso forme compiute di assoluta unicità e singolarità musicale, a partire dal successivo, esplosivo, Demanufacture (1996, Roadrunner).
Il songwriting, comunque già definito e personale, è ancora acerbo, e teso verso la realizzazione di canzoni troppo brevi per poter consentire di far sviluppare al gruppo tutta la propria potenzialità artistica e tecnica, che possiede in ogni singolo musicista.
Ma è solo questione di tempo…

Daniele D’Adamo

Tracklist:

1.Martyr
2.Leechmaster
3.Scapegoat
4.Crisis
5.Crash Test
6.Flesh Hold
7.Lifeblind
8.Scumgrief
9.Natividad
10.Big God/Raped Souls
11.Arise Above Oppression
12.Self Immolation
13.Suffer Age
14.W.O.E.
15.Desecrate
16.Escape Confusion
17.Manipulation

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