Recensione: Spiral Castle (versione cd)

Di LeatherKnight - 7 Dicembre 2002 - 0:00
Spiral Castle (versione cd)
Band: Manilla Road
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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68

Sarebbe difficile negare che ritrovarsi tra le mani, nel 2002, un nuovo disco dei Manilla Road sia un qualcosa di estremamente piacevole. Certo, questa come molte altre reunions vive di luci ed ombre; in questo caso è la musica più a subire i danni di scelte forse non sempre condivisibili. Il bilancio generale è più che positivo, ma almeno su qualche componente di “Spiral Castle” qualcosa da guardare più attentamente c’è: vediamo in dettaglio qui sotto.

Senza perder tempo nell’affrontare i “punti dolenti” (lineup, sonorità, monicker imposto, tagli alla tracklist, ecc..) di “Spiral Castle” e della nuova vita dei Manilla Road, è bene comunque precisare che arrivati alla seconda prova questa band (ricordiamo nata come progetto solista di Mark Shelton, gli “Shark”, non come una reunion dei MR) mostra le sue potenzialità e scopre sempre più i suoi limiti.
Limiti non tecnici o concettuali, sia chiaro. I limiti, in questo caso, sono quei paletti quasi autoimposti da una serie di circostanze più o meno volute che stabiliscono un taglio netto con l’idea dei Manilla Road che ci siamo fatti fino al 1999.

Questa reincarnazione degli Epic Metal Masters di Wichita fondamentalmente, diciamolo chiaro e tondo, non aggiunge pressoché nulla a quanto già detto e fatto in passato. La formazione e la musica gode adesso di nuove caratteristiche,  a discapito di quelli che erano i “trademarks” del passato; il che è naturale e ovvio, l’abbiamo già detto, no?
Canzoni indiscutibilmente suggestive, belle, magiche, dotate del leggendario magnetismo della voce e delle melodie di Mark Shelton, voglia di vivere nel presente e non nel ricordo del passato, sì, ok…tutto questo c’è, ma andando oltre troviamo poco, forse troppo poco, di cui essere felici.

I pregi di “Spiral Castle” non sono pochi e rappresentano dei buoni segnali da parte delle band. Abbiamo un ritorno allo stile classico (molti dicono “Crystal Logic”) reinterpretato in chiave moderna. I testi si giovano di un’asceticità ed una concretezza che non ha paragoni sul concept di “Atlantis Rising” (sul quale, per rispetto a Mark Shelton, non mi pronuncio). Le guitar lines hanno ripreso l’andamento aggressivo ma sognante del passato.
Se proprio si vogliono fare dei paragoni con i precedenti capitoli della discografia del gruppo-bandiera dell’Epic Metal americano, personalmente azzarderei che “Spiral Castle” sia sulla stessa lunghezza d’onda di “Open the Gates” piuttosto che sul precedente “Crystal Logic” a dire il vero.

Soggette alla sensibilità/gusti personali sono invece i richiami lirici del passato, voluti o meno, di “The Shadow” a “Mystification” (entrambi basati sul genio letterario di E.A. Poe) e sul finale di “Born Upon the Soul” che termina concettualmente allo stesso modo di “Friction in Mass” in “The Deluge”.  Poi la seconda strumentale del disco, l’outro “Sands of Time” (della durata di oltre 7 minuti) riprende e ripete forse anche troppo la melodia di “Born Upon the Soul” e ci richiama troppo esplicitamente il mitico “Epilogue” di “Dreams of Eschaton”.
Ancora, questi possono sembrare difetti o pregi a seconda di come si vedono le cose. Personalmente non li ho fatti pesare sulla valutazione.

Obiettivamente però ci sarebbe un po’ da lamentarsi su come l’album sia stato registrato e mixato. Volendo anche passare sopra la resa dei suoni (anche questo, va a gusti..o per meglio dire a perversioni), dobbiamo notare che talvolta gli strumenti e le vocals godono di una resa sonora degna della freschezza e personalità di idee.
Lo stile lascia qui più spazio al pathos evocativo e sognante delle atmosfere, abbandonando nettamente l’avvincente epicità che già ben conosciamo.
Brani lunghi ed abbastanza articolati rendono molto piacevole l’ascolto dell’album, sebbene qua e là ci siano dei passaggi meramente tecnici che non convincono più di tanto: il lavoro sinergico di basso/batteria (troppo piatto ed inanimato rispetto a quanto Park e Foxe ci hanno abituato per anni), le vocals incrociate di Shelton/Patrick non funzionano sempre alla grande e, onestamente, gli interventi di HellRoadie alla lunga sono troppo scontati e la brutalità espressa non aderisce nel modo più conveniente con il contesto in cui essa irrompe.

Ripetuti ascolti, anche a distanza di tempo, sembrano sottolineare sempre più gli alti e bassi di questo album. “Spiral Castle” è essenzialmente interessante, molto bello in qualche punto e decisamente “piacevole da ritrovarsi tra le mani” come dicevo nel paragrafo introduttivo. Tuttavia diversi passaggi dell’album non convincono più di tanto in realtà.  In “Merchands of Death”  soprattutto a funzionare è spesso la struttura vera e propria del brano che, nella parte ritmica, non brilla certo per efficacia.

In generale questa reincarnazione dei Manilla Road ha stilisticamente due grandi conti in sospeso: le vocals ripartite tra “The Shark” ed “Hellroadie” (conosciamo i motivi, ma miglioramenti sono possibili e richiesti) e le parti ritmiche. Non convinco perché sono troppo lontane dal classico sound della band. Sarei proprio curioso di sapere qual è il raggio di azione degli altri due componenti nella composizione dei brani e quanto il loro stile influisca sull’esecuzione dei pezzi.
D’altra parte il guitarwork è di quanto più bello sentito da Mark Shelton negli ultimi 10 anni almeno: su questo piano non c’è cosa che non fili liscio!! Grandissimo Mark!!!!!
Belle e molte interessanti le melodie arabegianti e le inflessioni sonore esotiche che permeano qua e là tutto l’album: per farvi un’idea ponete attenzione alle ultime due tracks, spettacolo!!

Sulla versione cd (che ha una valutazione e voto differente dalla recensione, di prossima pubblicazione, della versione in vinile; edita dalla italiana Black Widow records) è stata eliminata una traccia, che originariamente faceva parte della tracklist: “Throne of Lies”. Alla Iron Glory hanno pensato che questa canzone suonasse “troppo moderna”, che stonasse troppo nel contesto ascetico di “Spiral Castle” (album originariamente intitolato “Seven Trumpets”).
La scelta di censurare una canzone senza neanche avvertire la band e stampare il cd in maniera differente da come era stato creato ed impostato dai suoi artefici è un qualcosa che si commenta da sola.
Per carità, qui nessuno vuole giudicare l’operato altrui. Tuttavia, come “Heavy Metal to the World” e “Morbid Tabernacle”, forse serviva proprio una canzone atipica che spezzasse un attimo l’uniformità dell’atmosfera ed i toni epici. Brutale e moderna quanto volete, “Throne of Lies” avrebbe dato più corposità e duttilità all’album.
Sì, “Spiral Castle” è un disco cupo, stregonesco e sognante, ma forse troppo uguale a se stesso nell’atmosfera generale, e quindi leggermente troppo anonimo. Il che è male.

Insomma, i Manilla Road escono da questa prova con diversi buoni risultati e molti “se”. L’acquisto è consigliato solo ai fans più sinceri della band (gli altri apprendano le lezioni dei vecchi dischi prima). Ah, un’ultima cosa: vendetevi pure l’anima pur di andare ad un concerto dei Manilla Road la prossima volta che ripassano da queste parti. Vi perdereste altrimenti il lato migliore (“le luci”) della reunion, o no?

Leopoldo “LeatherKnight” Puzielli

1) Gateway to the Sphere
2) Spiral Castle
3) The Shadow
4) Seven Trumpets
5) Merchands of Death
6) Born Upon the Soul
7) Sands of Time

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