Recensione: Spiritual Bloodshed

Di Daniele D'Adamo - 13 Giugno 2017 - 0:00
Spiritual Bloodshed
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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78

Flies and filth… alone you are reborn to see 
I alone… to be sworn to disease 
Cries in vile hands and revolted in hate 
Lie upon and contort on your knees 
Die, alone and transpire in the haze 
Eyes consume every morsel of flesh 
Crying alone… you are born to see 
I alone… to be sworn to disease
Hail Vrasubatlat!

A due anni dal debut-album omonimo tornano i Triumvir Foul con le loro allegorie mitologiche, culminanti nel culto all’immonda creatura immaginaria che risponde al nome di Vrasubatlat. Un filo conduttore unico, che lega assieme due capitoli di una saga innominabile che, pare, non avere mai fine.

Lo fanno con un ritorno all’antico, cioè alla formazione a due, primigenia, composta dai due pazzi scatenati che rispondono ai war-name di Ad Infinitum (voce, chitarra, basso) e Cedentibus (batteria).

Costoro fabbricano un death metal degenere, morboso, follemente primordiale. Non si tratta di old school, no, bensì di stile involuto, chiuso su se stesso, dal flavour assolutamente arcaico. ‘Asphyxiation’ è l’immonda opener-track di Spiritual Bloodshed che accompagna la mente oltre la tomba, sprofondandola nell’Ade più oscura.

Il rombo cupo e sommesso che sconquassa le budella è frutto di un riffing claustrofobico, generato da suoni putrescenti, marci sino al midollo (‘Tyrannical Chains of Flesh’), nonché da un drumming abominevole, che scava la carne sino a raggiungere il cuore in occasioni di mefitici e tentacolari blast-beats (‘Disemboweled Pneuma’). La progenie dannata da cui è fuoriuscito l’immondo duo di Portland alimenta senza sosta le litanie narrate dallo scellerate linee vocali (sic!) di Ad Infinitum, cantore di indecenze senza spazio né tempo; abile, anche, a martoriare con costanza terribile il basso sì da farne una specie di tuono monotono e continuo, laggiù in sottofondo.

Il tutto a condire la carne corrotta che identifica idealmente un sound senza alcun compromesso, unico o quasi nella sua scellerata costruzione, nel suo srotolarsi passando per brani assurdamente riconoscibili l’uno dall’altro, ancorché immersi nell’uniforme mota marrone, sprofondati nelle sabbie mobili di antichi cimiteri.

Il combo dell’Oregon non inventa certamente nulla di trascendentale, questo deve essere chiaro, purtuttavia riesce a mettere in piedi un disco di rara intensità, bestialità ed efferatezza sonora. Il perfetto complemento di “Triumvir Foul”, la sua ideale continuazione, il suo proseguimento nelle più buie caverne dell’underground.

La bellezza della putrefazione.

Daniele “dani66” D’Adamo

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