Recensione: Spiritual Instinct

Di Tiziano Marasco - 6 Novembre 2019 - 7:11
Spiritual instinct
Band: Alcest
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2019
Nazione:
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79

L’idea, sentendo “Protection”, brano che a fine agosto ci ha dato un assaggio di “Spiritual Instinct”, era quello di un deciso ritorno alle origini per gli Alcest: rocciosi riff granitici con chiara matrice black “di seconda generazione”, rapide accelerazioni e improvvisi rallentamenti che esaltavano meravigliosamente le eteree clean vocals di Neige. Tutto faceva pensare ad un disco che, proseguendo e andando oltre quanto già sentito nel precedente “Kodama”, si sarebbe potuto allineare sia a “Souvenirs d’un autre Monde” che ad “Écailles de Lune”.

L’ascolto di “Spiritual Instinct” (titolo in inglese ma liriche completamente nella lingua di Rimbaud) conferma questa idea – benissimo – ma non si ferma a una mera autocitazione – meno male! Il sesto full-length dei transalpini è in effetti pervaso da riff ruvidi ed è forse il più rabbioso e “grezzo” (se così è concesso dire) mai realizzato dal duo occitano.

Anche la produzione sembra molto più ruvida ed immediata, il che toglie quel senso di “ovattato” che rendeva sognante “Écailles de Lune”. Certo, di atmosfere sognanti ne troviamo al solito in ricche dosi, ma vi è un che di sfuggente. Per spiegarlo è bene rimanere un attimo sulla produzione, che oggi verrebbe da definire approssimativa, anche se non è assolutamente così. Questo senso di approssimativo, di volontariamente precario, rende il sound davvero più istintivo, meno ragionato rispetto agli altri lavori di casa Alcest. In questo senso la scelta di Neige di registrare in analogico, pur allungando il tempo di registrazione, si è rivelata vincente.

Tutti i pezzi, compresa “Sapphire”, una delle composizioni più lente tra le sei in scaletta, è animata da un’inquietudine che la rende inafferrabile. Questo pezzo potrebbe essere sognante, potrebbe essere delicato – ed in effetti lo è – ma c’è una inquietudine di fondo che rende il tutto meno catalogabile e più affascinante.

L’apripista “Les Jardins de Minuit”, dopo un inizio in sordina, si vota a sonorità molto poco shoegaze e molto black metal, in cui sono solo le clean vocals a mantenere la matrice melodica tipica della band. Nella seconda parte del disco, poi, le atmosfere si fanno effettivamente un po’ più quiete, pur tuttavia il sound rimane grezzo, imperfetto. “L’île dels Morts”, forse il pezzo migliore in scaletta, pur spaziando tra atmosfere rarefatte e suggestive, rimane sporca e viscerale, se si esclude il breve break melodico. Sicché l’unico neo pare essere la successiva “Le Miroir” che ha il ruolo di “ballad”. Si tratta dell’unico pezzo che si rifà più allo shoegaze che al metal, permeato di tastiere liquide e ovattate (ma tutt’altro che leccate), costruito su riff di chitarra raffinati e gentili. Un po’ troppo raffinati e gentili, sicché “Le Miroir” si pone in contrasto con gli altri pezzi; per quanto gli Alcest ci abbiano abituati a brani che spezzano il ritmo, in questo caso la canzone pare un po’ fori posto e, per giunta, pure poco ispirata.

Ciò non di meno, “Spiritual Instinct” scorre in maniera molto piacevole ed oltre a mettere il mostra la solida classe del duo, risulta molto convincente. Senza dubbio aiuta, in un panorama di band post black che fanno album di oltre un’ora, il fatto che gli Alcest facciano dischi brevi. Sicché anche la presenza di un pezzo sotto tono su sei non finisce per danneggiare le sensazioni positive generali o peggio, per appesantire l’album e renderlo noioso – mi si perdoni, ma quest’anno ho trovato davvero tanti dischi che, fossero durati 10-15 minuti in meno, avrebbero guadagnato parecchi punti.   

Difficile, dati i numerosi alti e bassi nella discografia del duo francese, dare una valutazione a “Spiritual Instict” nel contesto delle altre opere passate, così come avere un quadro chiaro su possibili evoluzioni della band. Ciò che pare evidente è tuttavia l’idea di Neige di fare esattamente e solo quello che gli passa per la testa, e ciò è sicuramente un grande pregio. Permane inoltre il sound che è marchio di fabbrica dei transalpini, un po’ più duro, ma di fatto con linee guida immutate. Per il resto, quest’album presenta, finalmente, gli Alcest ispirati ed in una forma davvero ottima. L’idea del riavvicinamento, pure molto diretto, alle origini, funziona e non naufraga nello sterile tentativo di recuperare i fan della prima ora – anzi, li recupera benissimo e si spera che ne trovi dei nuovi. Ottima prova.

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