Recensione: Splendours from the Dark

Di Alessandro Calvi - 15 Settembre 2011 - 0:00
Splendours from the Dark
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Anno: 2011
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82

Sono tornati!
Finalmente possiamo dirlo: sono tornati!
Quattordici, lunghi, anni sono passati dall’uscita di quel gioiello che risponde al nome di “The Treasures Arcane”. Quattordici anni in cui il monicker Crown of Autumn è divenuto poco a poco sinonimo di band di culto e il loro primo, e allora unico, disco sempre più introvabile. Anche perchè, una volta tanto, pubblico e critica si son trovati perfettamente concordi nell’elogiare quell’album e chi riusciva a metterci sopra le mani se ne separava molto difficilmente. Ovvio, quindi, che l’annuncio dell’uscita di questo “Splendours from the Dark” abbia dato origine a una certa agitazione tra gli addetti ai lavori e, soprattutto, i fan. Altrettanto ovvia, poi, l’attesa e l’aspettativa attorno al ritorno sulla scena di una formazione tanto blasonata: dopo tanto tempo saranno capaci di proporre un altro capolavoro? O finiranno per deludere?

Forse la risposta più sensata, prima ancora di ascoltare “Splendours from the Dark”, sarebbe stata: né l’una né l’altra.
Dopo quattordici anni è folle pensare di potersi trovare tra le mani un disco paragonabile al precedente “The Treasures Arcane”. Sì, i nomi legati al progetto sono gli stessi (Rastelli come mastermind, compositore e polistrumentista e Stancioiu alla batteria)e quindi fare riferimenti incrociati è automatico, ma la gente cambia, fa esperienze; i gusti si evolvono, così come le ispirazioni, le idee e la cultura. Quando passa così tanto tempo, poi, si potrebbe quasi dire di aver a che fare con un’altra persona. Un fatto da tenere in gran conto quando si dà un voto.
Un simile incipit è assolutamente necessario perchè un conto è analizzare album che escono a distanza di uno o due anni dal precedente (in quel caso si può assistere a un’evoluzione progressiva e costante sotto il profilo compositivo, del sound e dell’ispirazione, facendo paragoni anche diretti), un conto, invece, è analizzare due dischi pubblicati a distanza di ben quattordici anni.
Sgomberata la mente da aspettative e preconcetti di sorta (consiglio rivolto anche a chi dovesse ancora provare ad ascoltare il CD, o a chi volesse tentare un nuovo approccio), questo è ciò che ne è uscito.

“Splendours from the Dark”, nonostante tutto, mantiene dei punti di contatto con “The Treasures Arcane”. Lo fa nella struttura di molti brani che ripresentano l’alternanza tra passaggi più tirati, cantati in growl, e altri dal sapore epico e contraddistinti spesso da melodie medievaleggianti.
Vi sono, però, altrettanti punti di discontinuità ed è su questi che conviene concentrarsi per presentare al meglio questa nuova uscita.
La voce pulita di Diego Balconi è stata sostituita da quella di Gianluca Girardi. Questa scelta ha portato un certo spessore in più alle clean vocals, dotandole spesso di maggiore epicità. Al contempo, però, ha ricondotto un po’ le linee vocali, per timbrica e melodia, verso quelli che sono gli standard del genere power, perdendo quindi parte della particolarità e dell’originalità iniziali. Oltre alle due voci, pulita e growl, che quasi tutti si aspettavano di vedere riproposte, troviamo anche la graditissima sorpresa di una terza voce. Milena Saracino riesce, con il suo cantato cristallino ed etereo, a trovarsi perfettamente a suo agio sia nei passaggi più gothic (che quasi strizzano l’occhio a certo melodic metal degli ultimi tempi) di “Aegis” che in una ballad lenta e melodica (che sembra tirata fuori direttamente dal precedente “The Treasures Arcane”) dal sapore medievaleggiante come “Ultima Thule”. Infine, per completare il giro delle voci: l’apporto di Rastelli con il suo growl appare quasi aumentato. Frutto, probabilmente, di una impronta generalmente più potente e aggressiva, anche grazie alla produzione, di tutto il disco.
Proprio la produzione è la maggiore responsabile di un certo cambio generale nel sound della band. Tutti gli strumenti suonano più pieni, più potenti, che in passato, questo sicuramente giova a chitarre, basso e batteria, che riescono a farsi sentire molto di più. I passaggi prossimi al black sono più violenti, decisamente più vicini all’anima del genere da cui traggono ispirazione, ma anche i momenti più rock-oriented o quasi prog ottengono maggiore spessore e importanza nell’economia generale delle canzoni. Le melodie medievali e orchestrali, invece, purtroppo sembrano perdere terreno, come schiacciate dalla produzione riservata agli altri strumenti e incapaci di ritagliarsi lo stesso spazio che avevano in precedenza. In realtà sono ancora ben presenti, è solo l’atmosfera generale dell’album ad essere cambiata.
Si parlava, prima, di rock-oriented e di prog, generi citati non a caso, bensì elementi molto importanti nell’economia di questo “Splendours from the Dark”. L’evoluzione musicale compiuta dai Crown of Autumn (e quindi da Rastelli) in questi quattordici anni è passata attraverso a diverse altre esperienze, in particolare quella dei Magnifiqat, quasi scontato, quindi, che anche in questo nuovo album se ne potessero trovare tracce, vedi ad esempio la conclusiva e strumentale “Spectres from the Sea”. Il songwriting è maturato giungendo a includere molte più influenze senza perderne nessuna del passato, annoverando così rock, epic, gothic, prog, black, power, etc.
Generi diversi apparentemente inconciliabili tra loro che, invece, in queste tracce riescono a convivere perfettamente con un orecchio sempre puntato verso la melodia e senza risultare mai sterili esercizi di stile. Risultato che è il frutto, indubbiamente, anche di un eccezionale lavoro di arrangiamento che raggiunge le proprie vette in brani come la splendida “In the Garden of the Wounded King” (probabilmente la più bella canzone in scaletta).

L’attesa era tanta e le aspettative erano, giustamente, altissime. Dopo quattordici anni di silenzio i Crown of Autumn son tornati a farsi sentire con il loro secondo album.
Un album che, come ci avevano abituati con “The Treasures Arcane”, è estremamente articolato e sfaccettato.
Un album che richiede più e più ascolti per essere scoperto appieno, ma che colpisce anche già dal primo passaggio nello stereo.
Un album che, probabilmente, non può essere paragonato al capolavoro d’esordio per molti motivi, ma che è sicuramente di grandissima qualità e merita di essere fatto proprio.
Un album che speriamo abbia presto un seguito, ma se dovessero volerci altri quattordici anni per un disco di questo livello, saremo ben lieti di aspettare.

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Tracklist:
01 Templeisen
02 Aegis
03 Noble Wolf
04 Forest of Thoughts
05 Ultima Thule
06 At the Crystal Stairs of Winter
07 To Wield the Tempest’s Hilt
08 In the Garden of the Wounded King
09 Triumphant
10 Ye Cloude of Unknowing
11 Spectres from the Sea

Alex “Engash-Krul” Calvi

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