Recensione: Steadfast

Di Ottaviano Moraca - 12 Maggio 2016 - 8:00
Steadfast
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2015
Nazione:
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58

Americani e dediti ad un Thrash metal vagamente ispirato ai Pantera. C’è bisogno di aggiungere altro? Ah sì, i Bound of Fate sono al loro secondo full-length dopo l’esordio del 2013 e non si discostano di una virgola da quanto proposto al debutto. Per questa seconda fatica in studio troviamo Phil Sonner e il nuovo entrato Cliff Sporcic alle chitarre, Dan Cameron come sempre, essendo membro fondatore, alla voce, Tim Seale alla batteria e Dave Snodgrass al basso. Questo disco è brutale e cattivissimo, senza alcuna concessione alla melodia e a qualsivoglia orpello stilistico, ad iniziare dall’opener “Save or Betray”, che in una struttura solo un po’ monotona unisce ad un riffing accattivante un ritornello mozzafiato. Quasi identico discorso si può fare per la successiva “Rebuild the Man” caratterizzato dal lavoro, davvero furioso, della batteria e dalle sovraincisioni dietro al microfono, mentre qualche “Yeah” riporta alla mente l’Hetfield dei bei tempi. Riffing sempre quadratissimo e dalla compattezza granitica anche in “Strung Out-Strung Up”, che non aggiunge però niente a quanto già sentito finora. Leggermente più articolata e sofferente la quarta traccia intitolata “Condemnation”, che può vantare qualche rallentamento e qualche stop nell’altrimenti implacabile doppia cassa. Fin qui di sicuro il miglior brano del disco. Egualmente ispirata la seguente “Crooked Blue”, anche se non brilla per creatività in assoluto, ma che mostra ancora una volta il meglio alla voce Riffing. Con “The Cleansing” troviamo un pezzo che si distingue soprattutto per la grande immediatezza. Semplice nella struttura e diretto come un pugno in faccia ci conduce direttamente alla conclusione dell’album intitolata “Broke Apart”. Pesantissima e nell’orbita dei primi Pantera piacerà soprattutto ai nostalgici più sofferenti pur peccando nel sound delle chitarre un po’ troppo affilato per il target di riferimento. Concludendo questo lavoro è molto immediato… anche troppo, manca infatti quell’estro che ha distinto i padri fondatori del genere a cui questi americani si rifanno anche abbastanza apertamente. Le doti tecniche ci sono tutte, soprattutto nella sezione ritmica, ma pur non volendo fare alcuna concessione alla melodia, i Nostri avrebbero potuto trovare dello spazio per qualche exploit personale. I due chitarristi si alternano in riffing solidi come mura di pietra e sicuramente altrettanto pesanti e, bisogna dirlo, in questo frangente fanno un lavoro egregio, ma avrebbero potuto/dovuto concedersi di più sul piano creativo. La voce, come la produzione, non è niente male ma non entusiasma soprattutto perché un po’ monotona e priva di qualsivoglia scintilla. In definitiva questo è un album ben suonato e ben realizzato ma un po’ troppo appiattito nella sua aggressività che consiglierei solo a chi ha un disperato bisogno di sfogarsi pogando senza la distrazione di dover cogliere raffinatezze tecnico-stilitiche nella musica che sta ascoltando.

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