Recensione: Step Into The Light

Di Fabio Vellata - 11 Settembre 2018 - 0:11
Step Into The Light
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2018
Nazione:
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76

Potremmo quasi scommettere sul fatto che in pochi ricorderanno questa misconosciuta band AOR nata nella sempre prolifica terra Svedese all’incirca venticinque anni fa, in un’epoca in cui il genere era stato praticamente sommerso dalle varie ondate grunge e lo stile caratterizzato da melodie ad ampio respiro era rimasto patrimonio esclusivo di pochi avamposti sperduti in giro per il globo.

Eppure gli Snakes in Paradise ci sapevano fare un bel po’: nati come band di “supporto” di Mark Free agli inizi dei novanta per mano del chitarrista dei Bedlam, Thomas Jakobsson , avevano poi dato alle stampe una breve serie di album (tre per l’esattezza) paragonabili per il sottoscritto ad un piccolo raggio di luce in un plumbeo e cupo cielo autunnale. “Garden of Eden” in particolar modo, edito nel 1998 e seconda uscita del combo nordico griffato dalla compianta Z Records (un’etichetta scomparsa da tempo che rimarrà però sempre nei cuori degli appassionati), si era rivelato un gioiellino dalle sonorità vicine al rock melodico a cavallo tra Whitesnake e Survivor, del quale conservare dolci memorie in virtù di una gradevolezza complessiva duratura nel tempo ed esaltata da pezzi estremamente orecchiabili come “Can’t Let Go”, “Voice Inside” e “Without Love”. Simboli di un disco troppo sottovalutato e destinato ad una ristrettissima cerchia di pubblico molto ricettivo alle proposte del genere, rimarchevole parimenti per la voce un po’ malinconica di Stefan Berggren, singer visto in seguito con Razorback e Company of Snakes.
Materiale, come si suol dire in questi casi, utile nel definire i contorni della “cult band” per appassionati.

Per quei quattro o cinque strenui ascoltatori ancora rimasti ancorati alle memorie, una gradita novità quella di ritrovare il gruppo di Berggren e Jakobsson “ripescato” e rigenerato dalle cure di Frontiers, label ormai da tempo riferimento massimo per il settore.
La magia di un tempo, va detto, è un po’ passata: l’effetto sorpresa o presunto tale non è certamente ascrivibile ad un’uscita come quella confezionata dagli Snakes in Paradise per quello che risulta essere il primo cd di brani inediti dopo sedici anni d’oblio.
Nessun cambiamento di stile e forma, insomma: le coordinate sono sempre quelle di un tempo e, piaccia o meno, il sottile effetto “deja-vu” che ne deriva, una tassa obbligatoria da tributare ad una carriera che pur producendo buoni frutti, non ha mai avuto sin dapprincipio alcunché di originale o solidamente distintivo.
D’altro canto, la considerazione può proporsi – nel bene e nel male – come ambivalente: ciò che di buono c’era ai tempi nella ricetta artistica offerta dal gruppo scandinavo, è rimasto intatto e per nulla scalfito dallo scorrere degli anni.
Una miscela di melodic rock orecchiabile ed accomodante, mai eccessivo nei toni, qualche volta provvisto di un velato retrogusto malinconico in termini di atmosfere, che non ha indubbiamente la pretesa di segnare un’era quanto piuttosto la ben più moderata ambizione di intrattenere con garbo, basando la propria essenza sulla semplicità di trame melodiche facili e di pronta assimilazione.

Il sempre più sparuto gruppo di appassionati di cose melodiche converrà, in ogni modo, sul fatto che anche questo “Step into the Light” meriti almeno un’occasione.
Dalla svelta opener “Wings of Steel“, ammantata da un sapore quasi nostalgico, proseguendo per la seguente “Silent Sky” – traccia “notturna” che in qualche modo ci ha ricordato alcune vecchie cose dei Thin Lizzy – ed arrivare alla ballatona del disco “Angelin“, una volta tanto meritevole di plauso al di là di qualsiasi contestazione inerente a presunte banalità, c’è motivo per rintracciare qualche elemento interessante che vada nella direzione di un ascolto piacevole e rilassato.
Si aggiungano gli effluvi “rurali ed americaneggianti” di un binomio come “Will You Remember Me” / “Things”, i riflessi affini all’AOR di Richard Marx riconoscibili in “Liza”, uniti alla sognante conclusione a carico della title track, ed i contorni di un come back che non ha velleità da “classico” ma riesce in ogni caso a portare a casa qualche buon risultato, saranno ben definiti.

Un bel salto indietro di tre lustri, un filo che si riannoda all’improvviso e dà seguito ad una storia interrotta da parecchio, con una formazione, oltretutto, praticamente immutata rispetto a quella di allora.
Eleganti, mai sguaiati, affezionati ad un modo di fare melodic rock che non riconosce nell’impeto e nella veemenza i propri valori fondanti. 
Gli Snakes in Paradise così erano e così sono ancora oggi.
Assolutamente fedeli a loro stessi. 

 

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