Recensione: Strikes (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 7 Agosto 2014 - 7:51
Strikes (Reissue)
Band: Blackfoot
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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90

 

La cultura degli Indiani d’America serbava un profondo rispetto per l’ambiente e vedeva l’uomo come parte integrante di esso, il quale doveva convivere nel rispetto della natura e degli esseri viventi. Tale cultura riconosceva negli animali una proiezione di forze nascoste, misteriose, che potevano essere sfidate ma trascendevano qualsiasi controllo.

Non è, dunque, difficile immaginarsi una copertina più adatta per l’irresistibile Strikes”, masterpiece del 1979 targato Blackfoot, che sfoggia un letale cobra, simbolo dai molteplici significati (forza, desiderio, saggezza), nonché animale che richiama il “dolce” soprannome del carismatico leader del gruppo, Rickey Rattlesnake Medlocke. Una copertina poco meno che profetica, quasi quanto il titolo: con questo capolavoro i Nostri centrarono con ferina precisione il bersaglio, entrando nella parte alta delle classifiche statunitensi.

Per raggiungere il meritato successo il combo affrontò un cammino irto di insidie, una corsa febbrile narrata nel robusto hard’n’roll di Road Fever”: le spire di un groove contagioso preparano la strada a Rattlesnake, il quale non è attore estraneo al palinsesto ma è lo spirito roco e alcolico di questa polverosa via, contagiata dalla febbre del rock. Il ritornello non ha l’anima del refrain sontuoso ed elegante dato che i Blackfoot sembrano emulare i propri avi indiani, lanciando lunghi backings, carichi di tutto il calore e l’istinto southern. In Road Fever” rivive l’inflessione live del combo, impegnato a suonare dal vivo per naturale predisposizione e passione, mentre i soldi, faticosamente guadagnati, servivano a ripagare i finanziamenti di una label non sempre clemente.

Incitati dai battiti delle mani ci addentriamo nella riserva di caccia dei Nostri ovvero I Got A Line On You”: la voce di Rattlesnake danza con spavalda esuberanza e, ululando come il lupo della steppa, unisce la propria forza tribale in un coro appassionato. La chitarra ha poche requie e i riff concentrici servono a creare una groove rituale, quasi stessimo assistendo ad un incontro con un emblematico clan indiano. I Got A Line On You” rappresenta la prima cover di “Strikes”, rivisitazione del singolo firmato Randy California, chitarrista e frontman degli Spirit (band che univa in unico gruppo influenze psichedeliche, jazz, progressive ed hard rock). Al di là delle sue origini, la song dimostra l’abilità del combo di rimodellare una canzone che, come un vecchio abito ricucito per l’occasione, ora calza a pennello con il Blackfoot sound, diventando a tutti gli effetti parte essenziale del platter. Un piccolo classico dal cuore oldie che ha assunto le vesti di una grande hard-rock song.

Quando il sole di “I Got A Line On You” tramonta, le luci del crepuscolo illuminano il malinconico arpeggio di “Left Turn On A Red Light”. Una sensazione di tristezza viene alimentata dai suoni blues della chitarra e si impossessa delle liriche, come una fiamma tremolante ma luminosa sullo sfondo morente. Nel main vox confluiscono sfumature disparate, energiche ed alte, cadenzate e quasi sofferenti, ed il coro indica con trasporto la via da seguire. Nel secondo post-chorus la chitarra insegue riff striduli, ma mai troppo assordanti o pacchiani, solo capaci di raccontare la propria storia con partecipazione affettiva. Un’altra pagina di quel viaggio che è la vita, nel panorama selvaggio dei Blackfoot.

Seconda cover e nuova, incondizionata dichiarazione d’amore per il blues, con “Pay My Dues” del poliedrico Pinera, chitarrista e principale compositore dei Blues Image (in seguito Pinera collaborò con Iron Butterfly ed Alice Cooper). Come da tradizione, parlare di semplice rilettura sminuisce l’opera dei Blackfoot, che pagano il dazio segnando i solchi del brano con la loro inconfondibile verve, scrollando ogni indecisione con la grinta di Rick e della sua sei corde. Inutile dire che il risultato è inebriante quanto una bottiglia di whisky invecchiato, dimostrandosi personale e superiore alla “vecchia ricetta”, tanto da diventare a buon diritto repertorio dei Nostri.

Il rock torna a spadroneggiare in “Baby Blue”, caloroso midtempo privo di riff ingombranti e dotato di un chorus spensierato, che scorre brioso lungo il cielo azzurro di una giornata in Georgia.

Più impegnato è “Wishing Well”, remake di un classico estratto da “Heartbreaker”, ultimo studio album dei leggendari Free. L’originale di certo è un pezzo unico ma i Nostri lo ripropongono con un’interpretazione personale, che ne preserva la grandiosità ma fa ardere una forza passionale tale da bruciare e consumare i ritornelli, restituendoci un brano magistrale, atipico per le classiche sonorità dei Blackfoot e del genere southern. Sembra infatti che un germe della ex-confederazione si sia insinuato nel tessuto del sound inglese, la cui epicità ci fa tremare nel ritornello e sognare i nostri desideri nascosti nel post-chorus, solcato dalle delicate voci di un sogno diafano. Hargrett costruisce una teca di assoli che intrappola le nostre sensazioni, catturate e tradotte in vibrati sofferenti, seducenti.

Run And Hide” si colora delle tonalità assolate della strada mentre ci trastulliamo tra gli accordi caldi e malinconici, prima di librarci in volo assieme al coro. Dai suoni emerge tutto il dolore per la fine di una relazione e il desiderio di fuggire, celando il proprio rammarico in cerca di salvezza dalla nostra sofferenza.

Si intravedono segnali di fumo all’orizzonte mentre il suono torrido di un’armonica ci annuncia l’arrivo di “Train, Train,” hit per eccellenza dei Blackfoot, quasi a mimare la partenza di una locomotiva del vecchio West. Ed è il riff energico, dal marchio indelebile, il propellente che muove questo inarrestabile treno del rock. L’indiscusso capo macchine rimane Medlocke, che si trova perfettamente a suo agio nel condurre con enfasi un viaggio nelle lande del rock sudista.

Ci congediamo da “Strikes” con un classico del genere, “Highway Song”. Il titolo riassume con semplicità l’anima della closer: “Highway Song” è una strada dove viaggiamo trasportati da arpeggi tristi e assoli alti che scuotono i nostri ricordi, rievocati da un narratore appassionato quale Rick. Il chorus vibra di emozioni intense nel suo crescendo, lasciando una scia di malinconia infinita, che possiamo quasi toccare quando i vibrati ci avvolgono in una melodia dalle sfumature tristi ed eleganti, vivide e struggenti. Il ritmo diventa serrato, frenetico non appena il guitar work alimenta un climax di assoli e pattern vivaci, potenti, imbizzarriti, donando vitalità inaspettata alla musica, libera dai vicoli opprimenti dei cliché.

La conclusione di “Strikes”, affidata ad “Highway Song”, non è certo casuale: “Highway Song” spianò la strada del successo e da “Strikes” inizierà il periodo aureo dei Nostri che appesantiranno la proposta con i successivi “Tomcattin’ (1980) e “Marauder” (1981). Una fortuna, visto che non avremmo mai potuto godere dell’opera dei Blackfoot se Rick si fosse imbarcato con i Lynyrd Skynyrd nel fatale volo che provocò la morte di Ronnie Van Zant, di Steve Gaines e Cassie Gaines.

Destino? Coincidenze? Nessuno potrà mai saperlo: l’unica cosa che siamo consapevoli è che l’eredità di un grande complesso rimane un testamento immortale che sopravviverà per sempre.

 

Eric Nicodemo

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