Recensione: Structurae

Di Fabio Lupetti - 27 Maggio 2016 - 11:00
Structurae
Band: Atrorum
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2015
Nazione:
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90

Non mi capita spesso di entrare in fissa con un album. Ultimamente, anzi, molto di rado, se non mai. Può capitare qualche canzone che ho voglia di risentire spesso, ma un intero album è molto difficile. Eppure con “Structurae”, dei tedeschi Atrorum, è successo. Dopo tanto tempo sono tornato a sentire e risentire un album fino allo sfinimento. E ogni volta provo soddisfazione, perché ci trovo qualcosa di nuovo, una nuova via per uscire da un’avventura musicale labirintica, folle e caotica, anche se solo in apparenza.
 

Atrorum è un progetto musicale, sotto l’egida di Apathia Records, che vede come protagonisti ed autori umbrA e vatroS, che hanno deciso di dedicare il loro primo sforzo discografico non indipendente ad un vero e proprio esperimento. Tutto il disco mette alla prova la percezione acustica dell’ascoltatore nei modi più disparati: dalla mancanza di coerenza ritmica tra le linee musicali (allo scopo di creare disorientamento), all’uso di strumentazioni, effetti, suoni e persino lingue straniere diverse, per ricercare la resa sonora che stimoli nel modo più stravagante e alienante l’udito. 
“Menschsein” è, in questo senso, un vero e proprio biglietto da visita del gruppo: ci sono scream, note fuori accordo, inserti elettronici e in liuto acustico, nonché strutture melodiche molto danzabili. Il tutto condensato in 5 minuti (il brano più corto del lotto, e di molto) di puri stimoli.
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“Große weiße Welt” è, infatti, solo il primo, insormontabile e inaggirabile, scoglio per chi vorrebbe una proposta musicale chiara e lineare. Il brano è in sé estremamente lunatico, a tratti up-tempo molto ballerino e groovy, con un growl in tedesco veramente arrogante, con un po’ di sviluppi in dispari, ma più spesso lento e caratterizzato da suoni allungati e disturbanti, con pianoforte malinconico e pattern sonori stranianti e fraseggi vocali un po’ urlati, un po’ monotonici (a volte in profondità di campo sonoro, a volte in primo piano, per dare colore). Si evolve continuamente, prendendo da svariate anime musicali, trasmettendo un carattere folle che passa dalla tristezza alla rabbia cieca, attraversando anche l’apatia totale. Interessanti e coraggiosi i pezzi elettronici GOA (in pieno stile Astryx e Infected Mushroom) dell’ultimo terzo del pezzo che, dopo varie evoluzioni, chiude tornando al riff dell’inizio del brano. Una chiusura che mostra tutta la grandezza come compositori dei due autori.
“Amapolas” è il classico pezzo dall’intro acustico romanticone, che sai bene non durerà a lungo: infatti dopo poco prende, in tutto e per tutto, le sembianze di un mid-tempo brutale, in spagnolo. Le melodie fanno male: non sono per niente gentili, bensì infingarde e prendono in giro l’ascoltatore come le sessioni di drumming che non rispettano mai il ritmo dei fraseggi in growl o clean (come nel caso della folle declamazione “¡Todos somos santos muertos! ¡Todos somos santas muertes!”). Inserti latinjazz, da peggiore bar di Caracas, assieme alle registrazioni campionate di elicotteri e comunicazioni al walkie talkie, intervallano a caso il pezzo, dandoti per un attimo le sensazioni di essere in Sud America.
“Ψαλμός” parte anch’essa con un’accoppiata davvero bizzarra: clavicembalo e basso elettrico cantano ognuno per conto suo fraseggi dal ritmo trascinante e dallo sviluppo melodico meraviglioso. Sono l’introduzione a quello che sarà un lavoro di chitarre e batteria dissonante e appassionante, con dei riff fantastici in suoni secchi e sordi che mettono una gran voglia di saltare e scapellare fino a spezzarsi il collo, insieme al drumming cadenzato e scatenato. Le linee strumentali, inoltre, si permettono spesso di seguire ritmi ognuno indipendente dall’altro. Per continuare la ricerca sperimentale sulla musica in ogni sua forma, i ragazzi ci mettono dentro anche dei cori gregoriani, così da mescolare solennità e cattiveria in un mix avvincente e stravagante.
“Camouflage” comincia con pianoforte amarcord, da bar americano negli anni ‘60, accompagnato da voci pulite e querule, unite assieme in sviluppi strutturali tipici del balletto rhytm’n blues, a caricare l’ascoltatore come una molla. Il ritornello è meraviglioso, il fraseggio vocale è il più bello del disco, l’anima ritmo-melodica ti fa venire una gran voglia di ballare una danza macabra e folle, urlando a gran voce le parole in francese. Anche il format musicale di molte sezioni del pezzo richiama atmosfere nizzarde o lousinian jazz. Indubbiamente uno dei due pezzi più belli del lotto, insieme al precedente. Gli amanti del brutal, però, possono stare tranquilli: umbrA e vatroS non fanno mancare nemmeno in questo pezzo scream e blastbeat in quantità industriali, in particolare nella seconda metà del brano.
“Verfugung” è un midtempo violentissimo, molto impostato sul growl, che dà soddisfazione mano a mano che gli dai fiducia e lo riascolti. Anche in questo caso è presente una struttura ritmica e melodica indipendente dai riff di tappeto scordati (persino i piatti sono usati in modo errato nell’economia della struttura armonica) e dalle accelerazioni improvvise. La melodia segue un ritmo molto danzereccio, intervallato da inserti acustici meravigliosi che richiamano la musica popolare di stampo mediterraneo (molto interessanti come nel caso di “Camouflage”, sebbene apparentemente meno integrati nello sviluppo del brano) e riff strumentali più puramente progressivi.
“Èquipartition” è infine un pezzo lento e riflessivo, con riff granitici e dilatati nel tempo, molto elettronico e scifi. Ha una struttura metamorfica, simile a quella di “Große weiße Welt”: al quarto minuto torna ad essere infatti un pezzo in pieno stile Atrorum dalla velocità sostenuta e dalle dissonanze tonali, blastbeat, tastiere e scream fuori tempo. Il motivo, come in “Ψαλμός”, torna sempre, con variazioni e cambi di orchestrazioni, e resta vagamente percettibile nelle sfuriate estreme. Alla fine, dopo una pausa ambient, caratterizzata da atmosfere scifi e suoni alienanti, torna il coro gregoriano su fondo brutal.

Insomma, “Structurae” è una bomba: frizzante, divertente, lunatico, arrabbiato, riflessivo. Ma soprattutto di alto valore culturale e di ricerca: ti studia, ti stuzzica, porta all’estremo la tua esperienza di ascolto e solo a partire da stimoli sonori ti fa provare sensazioni che difficilmente avevi provato prima. 
Cari Atrorum, esperimento riuscito! È stato bello essere, per un po’, la vostra cavia.

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