Recensione: Structural Damage

Di Paolo Robba - 3 Agosto 2015 - 12:01
Structural Damage
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 1995
Nazione:
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83

Quando nel 1993 Ritchie Blackmore abbandonò i Deep Purple nel bel mezzo del loro tour mondiale, in pochi avrebbero scommesso che la scelta del nuovo chitarrista sarebbe ricaduta sul biondo chitarrista americano Steve Morse.
D’altra parte serviva un sostituto all’altezza e, una volta completato il tour con Joe Satriani,  lil musicista in questione divenne, prima temporaneamente, e poi definitivamente, il nuovo chitarrista dei Deep Purple. Fin dai primi anni Settanta con il gruppo Dixie Dregs, proseguendo con vari lavori nel progetto solista Steve Morse Band, e suonando anche un breve periodo con i Kansas, Steve dimostrò perché i Deep puntarono giustamente su di lui. Il suo stile limpido, cristallino, variegato, con fraseggi sempre melodici e mai banali, abbinato a suoni acustici e a sonorità rock, divenne un vero e proprio marchio di fabbrica.

Con l’uscita di “Introduction” nel 1984 prese corpo il suo progetto solista Steve Morse Band dove negli anni Steve si avvalse della collaborazione di pregiati musicisti i cui stili ben si sposavano con il suo sempre più inconfondibile sound. Ad “Introduction” seguirono altri quattro album tra i quali una nota di merito va sicuramente a “High Tension Wires” in cui spiccava la tanto declamata “Too many notes”. Siamo nel 1995 ed esce sul mercato discografico “Structural Damage” sesto lavoro nella discografia della Steve Morse Band dove la magica chitarra di Steve si accompagna al basso di Dave La Rue e alla batteria di Van Romaine.

Si comincia con “Sacred Ground” e immediatamente si riconosce lo “Steve Morse sound”; un intro ipnotico, leggero, sognante fa da degno apripista al disco.
Pezzo caratteristico strutturato attorno al giro di basso che, come accade in tutti i dischi di Steve, funge da chitarra ritmica aggiunta disegnando fraseggi che si sposano perfettamente con le melodie. Un continuo contrappunto tra basso e chitarra contraddistingue il pezzo seguente “Good to Go”; grande presenza di basso e batteria; intrecci continui tra il basso di Dave La Rue e la chitarra di Steve che disegna il tema centrale e cuore pulsante del pezzo, bello e accattivante.
Sibili, tremoli, vibrati, arpeggi, fraseggi velocissimi; c’è veramente tutto lo sconfinato repertorio del biondo chitarrista negli spettacolari soli di questa seconda traccia.

Prendiamo fiato un attimo e gustiamoci uno dei più bei pezzi dell’album, la sognante ed emozionale “Dreamland”. Strutturata intorno ad un pattern ritmico bello e particolare che si ripropone in tutto il pezzo, Dreamland è intimista e riflessiva. Interamente suonata con il clean sound sembra recitare una poesia tradotta e trasportata in musica dove Steve ci allieta con un solo centrale fantastico, dal flavour esotico e dal misticismo esoterico. Da ascoltare ad occhi chiusi, mente sgombra e cuore leggero. Una piccola gemma degna del miglior Steve Morse.

Ed ecco arrivare il primo vero pezzo rock dell’album. Un riffone di chitarra fa da prologo a “Barbary Coast” cui segue un tema stile country-rock. Ennesimo grande lavoro della sezione ritmica dove il basso ancora una volta si erge a protagonista. La Rue e Romaine sembrano preparare una tavolozza di colori dove Steve semplicemente con la sua “Music Man” disegna scenari e paesaggi. Mi permetto un azzardo con licenza musicale: nella parte centrale del pezzo un intreccio mozzafiato basso/chitarra ci riporta alla mente i migliori Dream Theater; da applausi.

Se il country-rock style era stato appena accennato nel pezzo precedente, qui lo stesso approccio stilistico costituisce l’essenza del pezzo perché di pezzo country si parla. “Smokey Mtn. Drive” è il classico brano sorprendente, diverso, particolare che Steve ci regala in ogni album. Clean sound pulito ed efficace per un tema velocissimo incastrato perfettamente nel tappeto sonoro basso/batteria. Che dire… il pezzo è decisamente country, ma quando la band preme sull’acceleratore dà vita ad un unico genere musicale, quanto mai azzardato e limitativo: blues, jazz, pop, rock; ancora una volta c’è di tutto. Semplicemente bellissimo!

Forse sarò di parte, forse amerò il suono pulito e sognante della chitarra acustica, ma non posso che votare “Slice of Time” miglior pezzo dell’album. Ho sempre sostenuto che un grande e virtuoso chitarrista si apprezza soprattutto quando giostra con la chitarra acustica, ambito in cui gli aiuti tecnologici ed effettistici spariscono e a comandare sono solo le dita che scorrono sulla tastiera. Beh… standing ovation! Fingerpicking style in un continuo rincorrersi di basso e chitarra che a volte si toccano, a volte si separano, a volte litigano e a volte si amano fondendosi in un corpo unico. Reminiscenze classiche, fusion, epiche e country dove sprecare paragoni o trovare influenze sarebbe fuorviante e quanto mai inutile. Segovia? Tommy Emmanuel? Al di Meola? John Williams? Si c’è un po’ di tutto questo; semplicemente direi che Steve Morse è unico e quindi attribuire meriti ad altri formidabili chitarristi equivarrebbe a togliere qualcosa a questo talentuoso musicista.

Arriviamo a “Native Dance” e qui Steve sembra quasi concedersi una piccola pausa. Il pezzo è infatti forse l’unica traccia un po’ anonima dell’album dove comunque i suoi soli risultano sempre ben eseguiti e accattivanti. “Just out of Reach” è una ballad sognante con il tema portante di Steve che ci culla e ci trasporta in un mondo fatto di immagini e sogni; un mare di emozioni e sensazioni dove regnano sovrane la serenità d’animo e la leggerezza di spirito. John Petrucci dei Dream Theater ha da sempre dichiarato che Steve Morse è stato, ed è tuttora, una delle sue più grandi fonti di ispirazione …e si sente eccome. Concentriamoci sui soli del pezzo e sembra di sentire il Petrucci più melodico che verrà negli anni a seguire nonché il Satriani più malinconico. Davvero un bel pezzo.

Rally Cry”, altro grande pezzo, parte con un intro ipnotico di Steve che funge da spartiacque in tutto il pezzo tra refrain e soli davvero fantastici degni del miglior Steve Morse. Anche qui basso e chitarra giocano ad inseguirsi; due amanti impazziti che litigano e si amano allo stesso tempo. Pezzo di grande impatto che avrà sicuramente una grandissima resa live dove non si può non menzionare l’ennesimo stupefacente lavoro al basso di Dave La Rue. E’ il momento di “Foreign exchange”, pezzo in 3/4 interamente suonato con la chitarra acustica. Chi dice che un pezzo deve per forza contenere soli, arpeggi, refrain e melodie particolari per entrare nel cuore dell’ascoltatore? Ascoltatevi questo pezzo unicamente costituito da una particolarissima cavalcata ritmica chitarristica di Steve che disegna melodie, suonando accordi e patterns ritmici in grado di scuotere anche gli animi più aridi e insensibili. Un’altra piccola gemma.

Siamo ai titoli di coda ed ecco arrivare la title track “Structural Damage” dove un intro basso/chitarra precede una furiosa ritmica basso/batteria con melodia di Steve solamente accennata a cui segue invece un refrain davvero vincente. Il pezzo è meno interessante degli altri e forse dalla title track ci si poteva aspettare qualcosa di più, ma poco importa. I soli di Steve e anche quello di La Rue sono sempre di ottima fattura e sempre godibili all’ascolto.

Structural Damage è in conclusione un grande album in cui compaiono e sono presenti tutti i tipici elementi del “Steve Morse sound”. Da sempre Steve ci regala emozioni, canzoni inaspettate, pezzi furiosi e ballad davvero riflessive. Comprare un album di Steve Morse significa entrare nel mondo di Steve Morse fatto di colori, leggerezza, divertimento e passione. Un chitarrista diverso, da ascoltare assolutamente, uno dei pochi che negli anni ha costruito un suo stile personale dalle molteplici influenze stilistiche.

Camminando per strada con la testa tra le nuvole, pensando a cosa fare il sabato sera, potrebbe passare una macchina all’improvviso con la musica a palla. Se quella musica fosse suonata Steve Morse, ebbene anche lo spaesato e sprovveduto “pensatore” la riconoscerebbe subito.
Diciamo la verità, pochi sono i chitarristi che hanno costruito nel corso della loro carriera un proprio sound e stile, forse Pat Metheny, forse Al di Meola….beh diciamolo…sicuramente anche Steve Morse.

Paolo Robba

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