Recensione: Sventevith (Storming Near The Baltic)

Di Tiziano Marasco - 1 Dicembre 2013 - 1:29
Sventevith (Storming Near The Baltic)
Band: Behemoth
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 1995
Nazione:
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86

Dalla biografia di Adam Nergal Darski, “Confessione di un eretico”:

“Prima ci chiamavamo Baphometh ma abbiamo scoperto in fretta che un gruppo con quel nome c’era già, anzi più d’uno. Iniziammo a cercare un altro monicker. Il padre di Baal aveva in casa un libro, Il dio del male. Lo aveva scritto Hervé Rousseau. Era uno scritto breve, poche decine di pagine sul tema della gnosi. Non capivamo nulla ma c’era un frammento sul Leviatano e sul Behemoth, due creature descritte nella Bibbia, nel libro di Giobbe. Impersonificava il male, ci bastava. Behemoth suonava proprio come Baphometh. A noi interessava la B all’inizio, volevamo essere come i nostri amati barbari Beherit e Blasphemy. Non ci abbiamo pensato due volte.”

E noi che da una personalità con la cultura di Nergal ci aspettavamo chissà quale raziocinio avesse portato alla scelta di un monicker tanto ironico. Perché effettivamente il Behemoth, nel libro di Giobbe, rappresenta il bene e, secondo le interpretazioni, viene identificato con l’ippopotamo (tant’è che in russo tale animale viene chiamato proprio bighimòt). Ma poco importa, perché in ogni caso stiamo parlando di due ragazzi in età da scuola media che, al calar della perestrojika sulla Repubblica Socialista Polacca avevano deciso di fondare un gruppo heavy metal. Due ragazzini vicini di casa in quel di Danzica, entrambi di nome Adam: Nergal Darski e Baal Muraszko. Il primo era un bulletto che a scuola andava bene in tutte le materie ma aveva 5 in condotta, il secondo invece suonava la chitarra e mangiava le lumache vive. La chitarra la suonava anche Nergal (il che negli anni ottanta della RSP non era una cosa molto comune), amavano l’heavy metal e King Diamond. Baal poi ebbe il grande merito di iniziare Nergal agli Slayer e alla musica estrema, sebbene quest’ultimo sulle prime non rimase favorevolmente impressionato.

Gli anni passarono, i due amichetti crebbero, il muro crollò e permise l’arrivo in Polonia di realtà occidentali, o meglio nordiche, sconosciute. Venne il black metal, che sui nostri fece molta presa.

“Facevi partire una cassetta, leggevi i testi e scoprivi che in qualche luogo del mondo esisteva qualcosa di simile a te. Non c’era distanza tra te e un ragazzo norvegese di cui ascoltavi la musica. Era a portata di mano. Gli scrivevi una lettera, e lui ti rispondeva. Su  questo si basava la certezza di quella scena metal underground. Tutti eravamo teenager, al massimo ventenni.  Eravamo tutti della stessa stirpe, ci legava. Quella era la nostra musica, e di nessun altro.” (Ibid.)

E così la musica dei Behemoth si fece sempre più estrema. Nergal comprò una batteria e Baal imparò a suonarla. Nergal si fece un mazzo tanto e alla fine la band riuscì a dare alle stampe tre minialbum tra il ’92 e il ’94. E l’anno successivo fu la volta del primo vero e proprio album. Sventevith (Storming near the Baltic), disco che si presenta originale sin dal titolo. Perché sì, il black metal è rifiuto del cristianesimo e della società, ma è anche  riscoperta delle proprie radici, che nella fatispecie sono polacche. Quindi, anziché ripescare il satanismo dei Mayhem, gli elfi di Burzum o il pantheon degli Enslaved, i nostri guardarono in casa propria. Guardarono a quella mitologia slava che è anello di congiunzione tra le mitologie indeuropee, in primis quella germanica (in particolare un albero del mondo simile ad Yggdrasil e una divinità, Veles, a tratti simile a Loki) e le religioni indiane. E così i nostri scelgono di dedicare il loro primo full’length a Sventevith (pl. ?wj?tovid), dio della guerra dotato di un curioso martello (e vabbé) ma pure di quattro teste come Brahm?. Dio raffigurato in una statua che si trova su un’isola dinnanzi a Rostock, ovvero proprio all’ingresso del mar Baltico. Una scelta che bene o male si ritradusse nei testi, testi che fomentavano una sollevazione degli slavi (in luogo delle forze del male) conto l’ordine costituito che li aveva visti assoggettati ai tedeschi per mille anni.

Venendo poi ad indagare la musica che prese forma in quelle undici tracce, c’è da rimanere esterefatti. Quei due ragazzini poco più che maggiorenni infatti riuscirono a dar vita ad un disco maturo e personale, un disco che fulmina ancor oggi al primo ascolto, un disco che, già allora, guardava avanti e pur restando fermamente black, presentava elementi innovativi sorprendenti. Uno su tutti fu l’utilizzo delle chitarre classiche, in particolare in due pezzi. Il primo è proprio la burrascosa opener Chant of the Eastern Lands, dove si segnalano sin da subito certe tastiere proprie ai Dimmu del primo Stormblåst. L’altro è l’immortale From the Pagan Vastlands, un pezzo di una bellezza abbacinante, compatto, carico di groove maligno e piuttosto prossimo a Midgards Eldar degli Enslaved nel suo mischiare vecchio e nuovo, riff lamellari contro arpeggi acustici semplici ed ipnotici, con un coro di furia ceca senza pari.

Tolti questi due piccoli capolavori, l’album intero rimane su livelli altissimi e propone un black piuttosto lento e decisamente più elaborato rispetto a quello dei maestri indiscussi del genere, siano essi Mayhem, Darkthrone, Satyricon o altri ancora.  Hidden in the Fog è un altro pezzo che i Dimmu avrebbero voluto fortemente in Stormblåst, con quelle tastiere gotiche a creare un’atmosfera buia e decadente. Inutile spendere lodi scontate per Forgotten Cult of Aldaron o per Transylvanian Forrest. Degni di nota poi i due interludi strumentali, il primo (The touch of Nya) che sembra uscire da un passaggio strumentale di Bergtatt degli Ulver, l’altro (Ancient) che disegna paesaggi spogli ed innevati grazie ad un tappeto di tastiere cariche d’atmosfera ed intimismo. Notevole pure l’inno Hell Dwells in Ice, recitativo prossimo all’intramontabile Snø og Granskog dei Darkthrone, sebbene meno apocalittico e più intimista.

Ora noterete che si son fatti diversi nomi lungo questa carriolata presentativa dell’album. Va detto però che molti dei dischi citati sono coevi o addirittura successivi a Sventevith, sicché risulta molto improbabile che abbiano potuto essere una fonte di ispirazione per Nergal e Baal. Molto più probabile che i due polacchi abbiano assimilato tanta musica estrema ed abbiano trovato da soli un proprio e personale sentiero verso il black. Un segnale chiaro per dichiararsi parte di una corrente precisa ma allo stesso tempo anche come una realtà autonoma, non proveniente dalla Norvegia.

A voler tirare le somme, ciò che desta maggior stupore in questo primo disco dei Behemoth, un po’ come tutti i dischi black degli anni novanta polacchi, è l’incredibile naturalezza con cui i figli di Lech hanno assimilato il metal occidentale. Questa nazione, dove prima della perestrojka si punivano i musicisti rock con dieci anni di carcere (checché ne dicano i revisionisti più insipienti), ha dato vita a svariate band che sono assurte a fama mondiale in pochi anni. Nessun altra nazione del patto di Varsavia ci è riuscita. Senza tener conto del fatto che gli anni ’90 in quelle terre sono stati anni di eccezionale ottimismo a causa del regime totalitario appena conclusosi, dunque in estremo contrasto con la filosofia black.

Perché?

Molto probabilmente i Behemoth hanno interiorizzato la loro protesta adolescenziale contro il sistema ottantiano all’interno della loro musica e l’hanno riadattata all’odio verso una chiesa cattolica che neppure il regime comunista è riuscito mai a zittire completamente nella terra dei laghi Masuri. In ultima analisi questi sentimenti si sono tradotti in Sventevith, un debut album che qualsiasi band di true black metal vorrebbe avere nella propria discografia: disco nero, malato, eppure vario e personalissimo.

C’è poco da aggiungere. In quel 1995 era nata una stella.

Tiziano Vlkodlak Marasco

Il disco su Youtube

Sito ufficiale dei Behemoth

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