Recensione: Sweet Freedom

Di Abbadon - 16 Novembre 2003 - 0:00
Sweet Freedom
Band: Uriah Heep
Etichetta:
Genere:
Anno: 1973
Nazione:
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83

Freschi di già 5 studio album e di un recentissimo disco live, gli Uriah Heep escono nel settembre 1973 con il loro sesto prodotto, intitolato “Sweet Freedom”. L’album, venuto come detto subito dopo “The Magician’s Birthday” e “Live january 1973”, a posteri si può considerare l’ennesimo lavoro azzeccato di un combo tra i più sottovalutati di sempre. Messo in vendita sotto le insegne della Bronze, “Sweet Freedom” si dimostra, come tutti i primi dischi della band che vedeva Mick Box alle chitarre, il mai troppo compianto David Byron alla voce, Ken Hensley alle tastiere, Gary Thain al basso e Lee Kerslake alla batteria, un prodotto di eccellente qualità, prodotto che ripropone le medesime tematiche musicali dei suoi illustri e splendidi predecessori. Da menzionare subito il bell’artwork, che vede i 5 componenti del gruppo stare davanti ad un Sole che, all’aldilà della bellezza anche cromatica del soggetto, suscita in me due interpretazioni, legate al ciclo del sole stesso. Magari è una copertina fatta a caso e senza tanti pensieri, ma se io la interpreto come tramonto mi viene in mente il preludio della fine del gruppo come era (ovviamente parlo a livello di line-up e proposta musicale, che sarebbe parzialmente cambiata negli anni a venire, e comunque non dopo questo disco), se invece la considero come alba vedo in questo Sole le speranze che la band, spesso ignorata, riponeva in Sweet Freedom, speranze paragonabili proprio ad un Sole destinato a venire alla ribalta, dando agli Uriah il meritato successo (che arriverà probabilmente per davvero con il diverso “Innocent Victim”). Vabbè chiudo le mie riflessioni personali e vado avanti. Musicalmente parlando troviamo un hard rock molto melodico, suonato ed interpretato benissimo (magari nessun Uriah sarà un maestro assoluto nel suo strumento, anche se ci sarebbero diverse discussioni da fare in merito, tuttavia il mix che riescono a ricreare è qualcosa di raramente riscontrabile nelle altre band), e presentante tratti estremamente coinvolgenti dal punto di vista emotivo. Le 8 canzoni del platter spaziano molto per emozioni suscitate, passando dall’allegria, dal brio e dalla voglia di dare la carica, risultati messi in musica di una voglia di divertire che la band ha e che riesce, ancora una volta, a cogliere in pieno, alla sacralità e all’altezza poetica del sound, passando per tracce dotate di un distaccato carisma, una forma di grandezza della musica alla quale dobbiamo portare rispetto a cui nel contempo temiamo avvicinarci appieno. Anche le liriche sono ben strutturate e pertinenti alle note scaturite dagli strumenti nel corso delle varie song, e sono perfettamente interpretate dal solito Byron in stato di grazia, Byron come sempre aiutato da eccellenti backing vocals che si producono in splendidi cori. Passiamo finalmente, dopo questa larga introduzione, alla parte pratica e sentiamo il CD (ristampato nel 1996 con l’aggiunta di 3 ottime Bonus Track). Subito il brio di cui parlavo prima si mette in mostra con la buonissima intro “Dreamer”, aperta da un bel drumming e da un riff inconfondibilmente Hard Rock , eseguito alla perfezione dall’ottimo Mick Box. La canzone viaggia spedita e ha il suo culmine nel piacevolissimo ritornello, dove un ottimo David è appena accompagnato da voci di fondo che riescono comunque ad amplificare notevolmente i risutati della sua grande ugola. Bello anche l’assolo, molto pirotecnico e supportato da un gran basso lungo la sua esecuzione. Forse la conclusione è un attimo scontata ma non rovina per nulla la song, anzi la fa sfumare verso il capolavoro di “Sweet Freedom”, ovvero “Stealin'”, l’ennesimo manifesto del gusto e della grandezza come tastierista di Ken Hensley. L’attacco è dunque affidato alle magiche keyboards ed al sapiente basso di Thain, che trascinano l’evocativo singer nel cuore della canzone. Buoni anche qui i coretti, che portano all’esplosione del pezzo, con l’ingresso di batteria e chitarra. Mai veloce all’eccesso e soprattutto mai scontato, il mid tempo dimostra quanto perfettamente gli Uriah Heep sapessero fondere tutti i loro strumenti in un un complesso dove nulla prevale sul resto e nulla è in secondo piano. Ma i virtuosismi del gruppo non si fermano certo qui, e anzi proseguono subito con “One Day”, che inizia in pompa magna sotto le insegne della bass guitar, con chitarra distorta e tastiera sullo sfondo. Dopo una iniziale sfuriata la track diventa molto (permettemi di nominare una band che sarebbe diventata grande DOPO questo disco) Queen Style, con dolci melodie incentrate ancora sulle tastiere e sul basso (gli strumenti in più dell’album), e con un sapiente Mick Box a raffinare i passaggi principali con una chitarra dalle sonorità pulitissime. Ennesima menzione a parte per Byron, superbo nel trasmettere emozioni col suo tono mai aggressivo, ma estremamente fermo e pulito. Parlavo di sacralità poche righe sopra giusto? Ebbene, ditemi se non è sacrale l’inizio della titletrack, la lenta “Sweet Freedom”. La magica tastiera di Ken colpisce ancora, con una melodia dolcissima (che si ripeterà a centro canzone con un breve assolo) e sfumata solo dall’ingresso in “fade in” di tutti gli altri strumenti. Un colpo di genio che fa da preludio ad un brano melodrammatico, triste, colmo di emozioni vere. Le strofe in particolare sono bellissime, così la decadenza delle voci di fondo quando intonano le parole “Sweet Freedom, sweet, sweet”. Non ho niente altro da dire se non che si gioca con Stealin’ il posto di miglior track del prodotto, prodotto che continua con “If I Had the Time”, il prototipo della canzone che, come dicevo anzitempo, rappresenta il carisma che ammirate ma al quale avete paura di avvicinarvi (almeno questo è quello che suscita in me). Avete presente la musica di fondo dei documentari di una decina d’anni fa, quelli dai quali erano state tratte pure delle videocassette, quelli sull’evoluzione dell’uomo con il solito commentatore a parlare? Ecco, la musica portante di “If I Had the Time” è proprio improntata su quel modello musicale, decisamente ermetico, chiuso, ma che fa percepire una enorme sensazione di grandezza della track stessa, grande perché non potrà mai essere compresa appieno. Questa musica portante viene implementata da un buon cantato (da parte di tutti) e da ottime musiche che comunque non coprono questa sensazione, anzi amplificano il mistero della traccia forse più singolare in assoluto del Cd (o vinile, a seconda di ciò che possedete). Passiamo oltre, giungendo a “Seven Stars”, un gradito ritorno alle sonorità che avevano caratterizzato l’opener Dreamer. Infatti anche qui ci viene proposta una canzone estremamente divertente, veloce e ritmata, che vuole riportare una ventata di aria fresca in un disco altrimenti troppo serioso. Bella la chitarra, bellissimo il ritornello, che causa una vena di ilarità e goliardia quando si riduce, a livello di testi, all’elenco (ripetuto dalle backing) di tutte le lettere dell’alfabeto, sicuramente una trovata interessante e gioviale. Chiusa la seconda canzone più breve dell’album ci attendono “Circus” e “Pilgrim”. Il primo è un mid tempo di buona fattura, anche se breve, dove domina in maniera assoluta (stavolta sì) la chitarra acustica. La song non è l’epitome dell’hard rock, quanto piuttosto un mix con country e altri elementi di stampo rock americano, ma merita in primo luogo perché pensata ed interpretata davvero bene ed in secondo perchè, nonostante una vena di monocordicità, non stanca nemmeno per un minuto e anzi tiene piacevole compagnia. Del tutto diversa “Pilgrim”, davvero sontuosa fin dalle prime battute, con un basso estremamente coinvolgente, dei cori favolosi e di grande impatto e un pianoforte di fondo che impreziosisce di brutto tutto l’effetto. Dopo questa possente intro Pilgrim si sviluppa nell’ennesimo grande pezzo, piuttosto veloce nelle strofe, strofe che però non perdono la sontuosità di cui prima, che torna ogni tanto ad esplodere, sublimando nella parte centrale della canzone, dove un Hensley in stato di grazia, accompagnato da tutti gli altri, si propone in un assolo (seguito da uno altrettanto bello di Mick Box) di tastiera da brividi, l’ideale per chiudere un disco che alla prova dei fatti si è dimostrato come tutti i dischi precedenti degli Uriah Heep : semplicemente grande.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

1) Dreamer
2) Stealin’
3) One Day
4) Sweet Freedom
5) If I Had the Time
6) Seven Stars
7) Circus
8) Pilgrim
Nel remaster sono presenti anche :
9) Sunshine (b-side del singolo Stealin’)
10) Stealin (Edit della versione originale)
11) Seven Stars (versione mai rilasciata in precedenza)

 

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