Recensione: Symbol Of Salvation (Re-issue)

Di Vittorio Cafiero - 8 Giugno 2018 - 23:17
Symbol Of Salvation (Re-issue)
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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90

Per la gloriosa metal band di Los Angeles è tempo di celebrare lo splendido “Symbol Of Salvation”, uscito originariamente nel 1991 e ancora oggi, se non necessariamente il migliore, uno dei lavori più conosciuti e celebrati del gruppo. Per l’occasione, band, management e label hanno deciso di fare le cose in grande: un tour internazionale dove l’album verrà riproposto nella sua interezza e ristampe sia in vinile (con rimasterizzazione ad hoc) che in cd con bonus track. Ci pare giusto andare a riesaminare il disco, non tanto per ribadire chissà quali concetti, quanto per trovare qualche nuovo spunto di riflessione e, soprattutto, per tributare i giusti onori ad un album che all’epoca avrebbe potuto e dovuto fare il cosiddetto botto.

A poco più di un anno dalla morte di Dave Prichard, chitarrista e fondatore ucciso dalla leucemia, gli Armored Saint all’inizio degli anni ’90 sono una band lacerata dal dolore, in forte sofferenza emotiva, ma che, come un animale ferito che non vuole arrendersi, trova la forza di portare a conclusione i lavori per un disco di rara bellezza intrinseca, reso tale proprio dall’elemento primario nel decretare le fortune o l’insuccesso di un’uscita discografica: l’ispirazione per scrivere grandi pezzi. Heavy Metal americano, mai sguaiato, tecnicamente ineccepibile, snello e dinamico, “Symbol Of Salvation” si apre con un pezzo virile e di presa immediata: “Reign Of Fire” è caratterizzato da una ritmica trascinante e il crescendo che porta al chorus è da manuale, tanto che fin dal primo ascolto l’ascoltatore è catturato da un pezzo che dal vivo certamente trova la sua massima esaltazione. Il fil rouge non si interrompe con il passaggio alla successiva “Dropping Like Flies”: medesimo stile (seppure si alzi il piede dall’acceleratore), stessa grande costruzione del pezzo e ancora un centro. Gli Armored Saint dimostrano di riuscire, con una semplicità disarmante e senza chissà quale artificio o ruffianeria, a creare pezzi che si stampano in testa senza mai diventare stucchevoli. Con “Last Train Home” si cambia registro, ma il risultato è identico. Tanta melodia, approccio più riflessivo e compassato: la resa perfetta del suono rimasterizzato esalta i dettagli, in particolare chitarra solista e basso vengono fuori alla grande (e a tal proposito, non stupisce che pochi anni prima Joey Vera fu nel giro dei bassisti individuati per prendere il posto di un certo Cliff Burton…). “Tribal Dance” vede sugli scudi un John Bush (anche lui a suo tempo corteggiato dai Four Horsemen) dalla bravura quasi sfrontata che sciorina strofe articolate e dalla costruzione originale, mentre, dopo l’intermezzo strumentale di “Half Drawn Bridge” è il momento della classica ballad “Another Day”, molto fine anni ’80 come flavour e dal grande lavoro di chitarra solista. La title track è un eccellente sunto di tutti gli elementi dell’album, tra momenti energetici ed altri più ragionati, ma non è assolutamente il climax conclusivo prima del rush finale di ordinanza, in quanto anche verso la fine dell’album la presenza di highlights è tutto fuorché rara: non ci sono filler, gli Armored Saint ci tengono a portare a casa il clean sheet in quanto a pezzi scadenti. Piacciono in particolare l’interpretazione di Bush in “Hanging Judge”, l’attacco così ottantiano di “Warzone” e “Burning Question” che, nella sua totalità, fra il suo mood stradaiolo e un refrain appassionato, si piazza certamente tra i momenti più brillanti dell’intero lavoro. Ma non basta; c’è ancora la lunga e malinconica “Tainted Past”, con l’ultimo, postumo assolo di Dave Prichard recuperato dalle demo session e il buon finale della vigorosa e veloce “Spineless”.

Questa la doverosa analisi approfondita di un disco che nel corso degli anni è diventato a suo modo un piccolo classico tra gli aficionados di certe sonorità. Perché non ha riscosso il successo commerciale che avrebbe meritato? Fu un’uscita tardiva e ormai fuori tempo massimo per l’US Metal, troppo leggera per i thrasher, troppo poco glamour per l’hair metal allora tanto in voga; nel frattempo, inoltre, l’interesse dei media si era spostato verso altre sonorità e ultimo motivo, ma non in ordine di importanza, il look sobrio della band non era di aiuto in un periodo in cui l’immagine era tutto.

Il saluto ad un’epoca, l’anticipazione di un certo tipo di maturità che molte metal band avrebbero espresso  negli anni a venire, “Symbol Of Salvation” è un album che suona sempre fresco qualunque sia la moda del momento, proprio perché genuino e lontano da qualsiasi trend passeggero. Sic et simpliciter, American Heavy Metal: here to stay.  

Nota:

Per i collezionisti, da segnalare il remaster esclusivo e inedito della versione su vinile, mentre la versione CD, anch’essa rimasterizzata rispetto all’originale, vede quattro bonus track demo version già edite in precedenza, nello specifico, sulla versione a due cd della compilation “Nod To The Old School”: la tradizionale e, appunto, vecchia scuola “Medieval Nightmare”, “Get Lost”, la grooveggiante “Tongue And Cheek”, la veloce “Pirates” in chiusura.

Vittorio Cafiero

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