Recensione: Synchreality

Di Alessandro Marrone - 13 Aprile 2018 - 8:00
Synchreality
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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65

Nella mia mente c’è sempre spazio per qualcosa di nuovo, del resto quante volte abbiamo scoperto per puro caso un gruppo che è poi diventato parte integrante della nostra raccolta? Parecchie, ne sono sicuro. E così, dopo esser stato attirato dal nome e dalla copertina, tutto in perfetto stile prog, ho deciso di approfondire la conoscenza con gli Hypnotheticall, quartetto italiano, di Vicenza per la precisione. Bene, gli ingredienti per un disco interessante si stanno sistemando uno dopo l’altro e le mie aspettative cominciano a salire minuto dopo minuto, notando come l’obiettivo del gruppo sia quello di offrire un progressive contemporaneo, che non disdegna alcune digressioni djent, mantenendo sempre al centro dell’attenzione la voce del singer Davide Pellichero. Si tratta del terzo full-length, pubblicato a distanza di 5 anni dal disco precedente e con una formazione che è stata rimaneggiata, ma pronta a conquistare la scena mondiale.

Cominciamo con Synchronism to the Light, una opener più lunga di quanto ci si aspetti, la quale si articola anche attraverso una parte strumentale che mette in luce la pulizia e la precisione ottenuta in fase di registrazione. Niente di particolare, ma l’attesa viene ulteriormente amplificata, sino al passaggio con la prima vera canzone dell’album Where All The Trees Bend. È qui che si comincia a scoprire la vera essenza degli Hypnotheticall, con una canzone abbastanza sostenuta, con la voce sempre in primo piano ed una sezione ritmica molto precisa. Non manca la melodia, ma il pezzo finisce lasciando come un senso di incompletezza. Segue Tribal Nebula, uno degli episodi migliori dell’intero disco, anche per la diversità rispetto al brano precedente – abbiamo a che fare con un veloce 2/4 ed una voce più convincente. Non male e riusciamo finalmente ad entrare in sintonia con l’identità della band, che suona precisa e quadrata. The Spell mette al centro della situazione le ottime capacità canore del singer, ma fa sentire la mancanza di un vero assolo di chitarra, aspetto che pesa sull’intero disco, un po’ per scelta stessa della band (di non includerlo in ogni canzone), un po’ perché quando c’è, fatica a convincere. Industrial Memories ricorda molto i primi Eldritch, il che non è certo un male, ma mescola abilmente un’ottima performance vocale con un radicale cambio di ritmica sul finale, un vero muro elettrico che si guadagna un vigoroso applauso. Superiamo la metà dell’album con Dreaming In Digital, pezzo molto atmosferico, che alterna una parte più riflessiva e quasi misteriosa con delle aperture più melodiche. Ancora ottimo lavoro della sezione ritmica, che nei momenti di incertezza riesce a trascinare il resto del gruppo, proprio come nel brano seguente intitolato Solstice of Emotions. Un mid-tempo con un bel riffing e con una batteria che trascina tutto il carrozzone dietro di sé. Si giunge così a In Hatred, che è sicuramente la canzone più strana dell’intero album e che non vi sareste mai aspettati di trovare a ridosso della fine. Potremmo definirla come una ballad, se solo non fosse per la sua atmosfera troppo “sintetica”, anche a causa della scelta di utilizzare una batteria elettronica. In questo caso avrebbe funzionato sicuramente meglio il classico accostamento delle tipiche note giuste al posto giusto, più prevedibile magari, ma di sicuro più in linea con la vera natura di un lento. La voce appare forzata, soprattutto a livello di metrica, ma finalmente arriva Rumors che con la sua aggressività spazza via almeno in parte le perplessità che si stavano accumulando. Lavorata al punto giusto è decisamente l’episodio più personale dell’intero album, ci trascina verso l’epilogo con Analog Dream Experience, un brano di chiusura acustico di circa 4 minuti … un po’ troppi in effetti.

Sia chiaro, il disco non è affatto male, ma per essere il terzo nella carriera della band mi sarei aspettato di più, perlomeno a livello di identità. In questo frangente mi son sentito più  volte a rimpiangere la mancanza di parti soliste di chitarra, o dubitare di parti vocali che non calzano propriamente a pennello con la base di fondo. Si tratta sicuramente di un buon trampolino per quello che potrebbe essere il prossimo disco, raccogliendo i pezzi e trovando il nervo ed il calore che avrebbero reso anche Synchreality un ottimo disco.

Brani chiave: Tribal Nebula – Rumors

 

Alessandro Marrone

 

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