Recensione: Tales of Avalon: The Lament

Di Stefano Usardi - 28 Giugno 2016 - 22:48
Tales of Avalon: The Lament
Band: Dark Avenger
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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76

È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho sentito nominare i Dark Avenger, gruppo brasileiro dedito ad un power metal  molto ben strutturato: dal 2001 per essere esatti, data di pubblicazione del loro secondo album, “Tales of Avalon: the Terror”. Questa lunga assenza dalle scene va ascritta, almeno da quanto ho appreso spulciando la rete, ad una lunga sosta del gruppo, durata una decina d’anni e conclusasi solo nel recente passato con la pubblicazione, nel 2013, di questo “Tales of Avalon: the Lament”, che prosegue il discorso interrotto appunto nel 2001 (Se si esclude l’ep “X Dark Years” del 2003). Sì, lo so cosa state per chiedermi: ma se l’album è del 2013 come mai lo recensisci solo adesso? Semplice, rispondo io: prima di tutto nel 2013 non collaboravo ancora con Truemetal e in secondo luogo il gruppo stesso, alla vigilia della pubblicazione del nuovo “The Beloved Bones”, ha deciso di ristampare questo “The Lament” per la nostrana Scarlet Records in favore di chi se lo fosse perso (come il sottoscritto) a causa della precedente distribuzione, più concentrata sul mercato sudamericano. Eccoci qua, dunque, a trattare questa fatica del vendicatore oscuro la cui formazione vede, dopo parecchi avvicendamenti nel corso degli anni, Mario Linhares alla voce, Hugo Santiago e Glauber Oliveira alle chitarre, Gustavo Magalhaes al basso, Anderson Soares alla batteria e Vinicius Maluly alle tastiere.
L’inizio è sontuoso: “From Father to Son” parte con un coro magniloquente sorretto dal suono dell’organo, interrotto dall’entrata in scena degli strumenti elettrici e dalla voce squillante di Mario. La prima cosa che mi salta all’orecchio durante l’ascolto è il ruolo di supporto cui vengono relegate le tastiere rispetto alle chitarre, e già questo basta a ben dispormi: pur non avendo nulla contro l‘uso delle tastiere nel metal (ci mancherebbe!) non ho mai apprezzato un eccessivo ricorso ad esse, come spesso accade soprattutto nel power, e un approccio più chitarristico mi fa sempre molto piacere. Tornando al brano d’apertura, si tratta di un mid tempo sfarzoso, screziato da fraseggi aggressivi e un ritornello decisamente trionfale; bello anche l’arioso assolo nella seconda metà che apre al finto finale, smorzato per cedere il passo a una chiusura più rilassata.
Un riff battagliero apre la successiva “Doomsday Night”, canzone più tirata che, nonostante  sconfini spesso nei territori dello speed non disdegna togliere il piede dall’acceleratore per rilassarsi all’ombra delle tastiere sognanti di Vinicius, prima di tornare a tavoletta per il furioso finale. Niente male. “The Knight on the Hill” parte con un riff decisamente hard rock, che in un attimo sfuma in un brano più rilassato, condito da melodie malsane e irrobustito nel ponte che conduce al ritornello più solenne. L’assolo ultra classico, pur non aggiungendo nulla al brano in termini di originalità, svolge ottimamente il suo ruolo grazie ad un approccio carico di feeling, concludendo egregiamente uno dei gioiellini dell’album.
Un arpeggio inquietante e maligno introduce “Broken Vows”, traccia lenta e molto scandita: alla solennità della precedente “The Knight…” si sostituisce un senso di ansia e rabbia, molto ben interpretato dal gruppo che confeziona una canzone dall’incedere pesante, ripetitivo, inesorabile, a tratti indigesto ma dannatamente efficace. “Stronger than Death” arriva a spezzare la tensione con un brano dal respiro più ampio, durante l’ascolto del quale si sente il profumo di un altro gruppo sudamericano decisamente famoso e dedito anch’esso al nostro amato power metal (e mi fermo qui, che tanto avete capito di chi sto parlando). Inutile dire che la canzone scorre che è una meraviglia, complice anche l’ottimo amalgama tra tastiere, che qui si ritagliano più spazio, e chitarre, e sebbene pecchi un po’ per carenza di personalità direi che glielo si può tranquillamente perdonare.
Tempo di ballata, sembra urlare ai quattro venti la chitarra acustica di “Can You Feel It?”: probabilmente è colpa mia, non essendo particolarmente amante delle ballatone, ma devo dire che questo brano non mi ha entusiasmato neanche un po’. Temo che ciò sia imputabile in massima parte all’agghiacciante coretto di voci bianche che si impossessa della seconda metà del brano e non lo molla più, trasformandolo in una traccia stucchevole, eccessivamente patetica, nonché primo passo falso dell’album per chi scrive. Va beh, cose che capitano.
Utther Evil” torna a puntare su riff aggressivi e tastiere maligne, a loro volta sorrette da una sezione ritmica quadrata e compatta: la voce durante la strofa si mantiene volutamente “narrativa” e minacciosa, esplodendo durante le sporadiche aperture melodiche che di tanto in tanto squarciano il tessuto del brano. Dopo l’assolo ci si aspetta un climax esplosivo, e invece no: la canzone rallenta, tornando all’incedere marziale dell’apertura fino alla conclusione di una traccia interessante e coriacea, ottima per tornare in pista dopo la ballata. A questo punto il nostro sestetto aumenta i giri del motore e sforna “Sicorax Scream”, traccia rapida ed agile ma tutto sommato poco incisiva, un po’ sottotono rispetto al livello generale dell’album nonostante i nostri si dannino l’anima per donarle carattere. La canzone non è brutta, la prima metà è anzi bella adrenalinica, ma secondo me non riesce a spiccare il volo come ci si aspetterebbe dopo l’inizio aggressivo; oddio, non lo definirei un passo falso, ma sono abbastanza sicuro che in questo “The Lament” ci sia di molto meglio.
Neanche a farlo apposta, il rumore del vento e della pioggia introducono una tastiera solenne che, a sua volta, apre uno dei gioiellini dell’album, un classico esempio di quel “molto meglio” di cui scrivevo poco fa: “Dead, Yet Alive”, complice la presenza di entrambi i fratellini Falaschi, si distende lungo i suoi sei minuti e mezzo serpeggiando tra parti più trasognate e morbide, sulle quali aleggia la voce delicata di Clarissa Moraes, ad emozionanti cavalcate in pieno stile Angr…ehm, power metal. Ottima traccia.
And So Be It”, l’altra mini ballata dell’album, si riduce data la sua breve durata ad intermezzo pre-chiusura, del tipo “traccia malinconica voce & piano con approccio vocale intimista” come la tradizione impone: a conti fatti niente di che. Molto meglio, invece, la conclusiva “The Thousand Ones” che, dopo un arpeggio acustico che fa da contrappunto al rumore delle onde, esplode in un mid tempo aggressivo ed ipnotico, ideale chiusura del cerchio e anello di congiunzione perfetto con la traccia di apertura, nonostante un incedere più diretto e meno magniloquente di “From Father to Son”. Dopo l’assolo torna a farsi sentire la melodia portante, che sfuma lentamente accompagnando l’ascoltatore alla fine di un ottimo ritorno sulle scene per il combo sudamericano.
Qualora non si fosse capito durante lo sproloquio appena terminato, questo “Tales of Avalon: the Lament” è un signor album: certo, come per molti album nello sconfinato calderone del power metal non inventa nulla e non è nemmeno esente (a  mio modestissimo avviso) da qualche sbavatura ma, tirando le somme, posso dirmi assolutamente soddisfatto dell’ascolto e mi sento di consigliare caldamente l’acquisto di questa seconda parte dei racconti di Avalon. Buon ascolto a tutti.

 

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