Recensione: Taphonomy

Di Vittorio Sabelli - 29 Aprile 2014 - 14:59
Taphonomy
Band: Bokluk
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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62

Qualche decina di chilometri a Nord di Santiago Di Compostela, in terra Galizia, sorge una città di nome La Coruna. La zona non lascerebbe pensare che ci siano band che si prodighino col metallo di morte, nonostante la Spagna sia ultimamente ricca di act di ottima fattura nel genere, a mio avviso con gli Wormed al comando.

Andiamo a scoprire i Bokluk, band attiva dal 2007, ma già con due divorzi alle spalle. Mentre la prima reunion non ha dato buoni frutti, l’ultima, risalente al 2011, ha portato un demo l’anno successivo e il loro primo full-length “Taphonomy“. Vediamo se i quattro galiziani seguono le orme dei loro colleghi iberici, che in qualche modo stanno dicendo la loro nel panorama mondiale.

Dopo l’intro in stile New Age “Psyche”, “Nomenclature” è la vera e propria presentazione del quartetto, con riff e ritmi spaccaossa, che si posano sul drumming di Corey e sul growl cavernicolo di Alex, che spesso apre verso ambiti vicini a Lemay. “Nausea” segue le orme dell’opener, con un rtimo punkeggiante all’inizio, ma durante l’ascolto non fa denotare particolari qualità, se non quelle di una buona band ma ninete di più. Forse la cosa che più di tutte si nota è il fastidio di un piatto ride della batteria, che risalta con frequenze non proprio delle migliori.

 “Creed Of Excruciation” cambia momentaneamente direzione, con un medium-tempo iniziale, in cui la chitarra crea una melodia sotto la quale Alex blatera qualcosa di incomprensibile, che subito si riprende la carreggiata tirati a mille, proseguendo sulla seguente “Excrement”, un minuto e mezzo di grind e death senza la possibilità di tirare il fiato.

“The Raw” prosegue il discorso con qualche breve apertura a tempi slow, su cui si riesce a scorgere un cenno melodico della chitarra di Tukas; è solo un’illusione, perché i Nostri hanno deciso con questo primo disco di assassinare in maniera asfissiante l’ascoltatore, senza possibilità di replica. Il finale, slow-free, è semplicemente una piccola chicca nel marasma continuo, che prosegue con “Neoteny Disclosure”, sulla quale ancora il piatto ride di Corey disturba su alcune frequenze.  

“Mindfuck Self” è forse il brano più ‘interessante’ dell’intero disco, con cambi di tempo e buone soluzioni, soprattutto in fase di riffing, sempre fin quando non si riparte a mille come da copione, anche se in questo caso il finale è degno d’interesse. Cosa che non desta la conclusiva title-track, che, nonostante i vari cambi di tempo, riporta in mente troppo spesso i pionieri del brutal.

“Taphonomy” è un buon disco che potrebbe interessare gli appassionati di brutal, ma non credo incanti quelli del death. Mancano ancora le componenti ‘personalità e varietà’, che magari negli anni potranno arricchire il vocabolario compositivo del quartetto, per rendere il discorso meno prevedibile e più interessante.

Vittorio “versus” Sabelli

 

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