Recensione: Temple of the Adversarial Fire

Di Andrea Poletti - 26 Febbraio 2017 - 8:08
Temple Of The Adversarial Fire
Band: Shaarimoth
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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I norvegesi Shaarimoth sono tornati, dopo ben dodici anni di assenza dalle scene si ripresentano sul mercato con il nuovo e fresco di pressata “Temple of the Adversarial Fire“. Un disco onesto, senza peli sulla lingua ma che a suo discapito purtrtoppo non porta nulla di nuovo sul fronte dell’espressione musicale. In sintesi bravi ma…ma fine. Bravi. 
Andando per gradi ad ogni modo è riscontrabile come all’interno della line-up solamente il batterista sia il nuovo membro della ciurma, Mortem Skogen non c’è più e al suo posto Slatrarin (Gehenna), siede dietro le pelli attravero un lavoro magistrale e chirurgico al punto giusto, il suo contributo al disco è notevole e meritevole d’attenzione. Secondo disco e nuovo inquadramente sono dunque, poichè pur ritrovando tutti i classici stilemi del gruppo già presenti su “Current 11“, è palese come oggi la produzione e solo produzione tenda a far avvicinare in diversi frangenti il gruppo a quelle tipiche sonorità di casa Gorguts, quella scuola canadese che tanto va di moda negli ultimi anni. Non è un male sia chiaro, ma quel sentore di “ok così suono figo e cazzuto” è riscontrabile più e più volte. Il difetto, se così possiamo dire di “Temple of the Adversarial Fire” è quello di non aver molto appiglio, mancando di quel singolo riff o quella canzone che ti invoglia all’ascolto back to back molteplici volte stile droga. Fermi tutti, non siamo di fronte ad un orrore di album, di spunti validi ne possiamo ritrovare parecchi, ma manca quel quid che può innalzare questo disco da buono a magistrale.
Un album che può essere visto come l’unione perfetta di death e black, non v’è preclusione tra questo e quel genere poichè entrambi si mischiano in maniera perfetta come se non ci fosse un domani, come se uno avesse bisogno dell’altro in ogni istante. L’essenza dei Watain, la ritualità dei Dissection, l’esoterismo di casa Absu e alcune componenti tipiche dei Behemoth si uniscono, andando a forgiare questo sound infernale e così criptico da lasciare spesso a bocca a aperta; pregievole il lavoro di batteria del già citato J. ed evocativo l’harsh vocal catacombale di R.. Shaarimoth sono dei Norvegesi atipici, dove le classiche sonorità che prevedono un black feroce e grezzo non fanno parte di queste lande, tutto è creato e forgiato per invogliare a scoprire cosa si celi dietro l’angolo, nel bene e nel male la curiosità vince. Come già detto non vi è possibile riscontrare una canzone categorizzabile quale capolavoro del genere, ma la sua onestà va ripagata e questo ad oggi è un punto che diventa un pregio vista la marea informe di band inutili. Canzoni come l’opener ‘The Hungry Omega‘, la brutale ‘Beast of Lawlessness‘ o la magistrale ‘Ascension of the Blind Dragon‘ dimostrano chiaramente come i nostri ci sanno fare, una perfetta alchimia di violenza ed atmosfera devote al verbo della fiamma nera; black e death si mischiamo perfettamente andano a forgiare quell’amalgama a tratti considerabile quale perfetta. Non ci sono solo momenti tritaossa, v’è molto di più poichè grazie a ‘Elevenfolded Wrath Of Sitra Achra‘ con la seconda parte molto simile ad un’invocazione sabbathina, a ‘Lord of Putrefaction‘ e le sue atmosfere infernali o l’evocativa ‘Fires of Molok‘ con i chorus anthemici in aggiunta al finale acustico si comprende perfettamente come Shaarimoth è sinonimo di esperienza e razionalità. Come detto già detto, ciò che a dispetto della semi-perfezione delle singole canzoni viene a forgiarsi è quella prepotente idea di già sentito, nel comparto sonoro dei Norvegesi nulla, è così unico e personale da gridare al miracolo, tanto che in alcuni frangenti l’idea di stare ascoltano un nuovo disco di una qualsiasi band Scandinava è molto forte e urla con innata furia.
In sintensi siamo d’innanzi ad un validissimo album, considerabile come di mestiere, che lascierà in molti amanti delle sfumature più occulte del black-death un sorriso sul volto per diversi giorni, sino a quando, finito l’incantesimo, il malcapitato si sveglierà e comprenderà come Temple of the Adversarial Fire” non lo si potrà ricordare tra le migliori uscite di fine anno. Voglio vedere questo come il primo passo per la loro seconda parte di carriera, che prende spunto da passato per andare a progredire in maniera esponenziale con il fatidico terzo disco, se questo mai un giorno uscirà. Consigliato si, ma non per tutti, astenersi fruitori d’annata con molteplici lustri di gavetta alle spalle.

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