Recensione: The Army of Darkness

Di Stefano Ricetti - 6 Luglio 2007 - 0:00
The Army of Darkness
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Anno: 2007
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76

I Sons of Madness provengono dalla Sardegna, terra che sa anche di metallo e che diede in passato i natali ai pionieri Rod Sacred e più recentemente agli emergenti Holy Martyr, tra gli altri. Mastermind dei Nostri è il batterista Alessio Mura, che già dal 2003 mette le fondamenta per formare una band insieme con Mario Mattei: i Metal Slave. Dopo i soliti e inevitabili ribaltoni in seno alla line-up, si ha il vero e proprio inizio dei Sons of Madness nel momento in cui la band inizia a proporre pezzi propri all’interno del setlist insieme con le cover di Iron Maiden, Helloween, Judas Priest e Stratovarius. E di quest’anno l’uscita del loro primo demo, oggetto della recensione.

Si parte con The Army of Darkness e fin da subito si intuisce il tipo di proposta dei ‘Madness: un epic metal scoppiettante di discendenza Eighties. Grande l’interpretazione del singer Massimo Carta che riesce a trasmettere il messaggio epico grazie alla tonalità e alla profondità della propria voce. Holy War non è la cover del celeberrimo brano dei Manowar ma un mid tempo dal riffing massiccio impreziosito da dei cori evocativi a metà canzone. Enemy, la terza traccia, è di derivazione metal made in Usa: meno epica e più diretta, a la Vicious Rumors. The Last Possibility parte come un lento evocativo, molto impegnativo, per poi esplodere in una cascata di riff dove ancora una volta la dedizione del combo tricolore alla mitologia nordica la fa da padrona e, in questo caso strizza l’occhio anche alla Vergine di Ferro inglese. Il penultimo brano, Vale of Tears, si fa notare per il lavoro molto fitto delle chitarre di Mario Mattei e Andrea Piras mentre Selva Ercina chiude il demo in crescendo, con un pezzo intrigante che riesce a non stancare nonostante i sei minuti e trentacinque di durata.          

I Sons of Madness con The Army of Darkness sono riusciti a tradurre su Cd la propria passione per l’HM classico dalle spesse venature epiche, facendo riferimento alle lezioni dei grandi maestri degli anni Ottanta, senza avere la velleità di inventare chissà che cosa, ma solo proporre la musica che a loro piace di più e suonare per il gusto di farlo. Gli ingredienti per far bene ci sono tutti, la sala prove, i concerti e lo scorrere del tempo in generale contribuirà a consolidare ulteriormente la loro ricetta musicale, che auguro possa poi tradursi in un full length.

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

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