Recensione: The Arrival

Di Alberto Fittarelli - 1 Febbraio 2004 - 0:00
The Arrival
Band: Hypocrisy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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71

Gli Hypocrisy sono diventati, col tempo, una vera e propria istituzione del metal estremo europeo: una serie di dischi del tutto personali nella loro semplicità ed un trademark ormai ben definito che ha portato anche alla nascita dei primi cloni hanno confermato l’importanza di quella band che dal classico death metal scandinavo è riuscita, negli anni, a raggiungere livelli sempre più alti.
La critica aveva avuto qualcosa da dire, negli ultimi anni, solo per il controverso Into the Abyss, disco in cui il gruppo tornava al death delle origini, modernizzandolo negli arrangiamenti ma senza evitare che trapelasse una preoccupante carenza di idee; bene, ora con questo The Arrival il discorso di fondo potrebbe essere lo stesso.

Tutto quanto i 3 svedesi presentano sin dalla bio come “ritorno a…”, infatti, mi provoca una qualche preoccupazione, dato che l’essenza del gruppo consiste proprio nel guardarsi solo ed esclusivamente avanti, per evolvere costantemente il proprio sound: e se questa volta la destinazione del lavoro compositivo dei nostri non è più il suono feroce dei primi anni, ma un mix tra Abducted e l’omonimo Hypocrisy, il risultato resta purtroppo abbastanza sconfortante. Ci troviamo infatti di fronte ad un album che pesca un po’ qua ed un po’ là, senza troppa voglia di fissarsi nella nostra memoria; le progressioni, addirittura fin troppo spinte, dell’ultimo Catch 22 qui spariscono quasi completamente: ne possiamo trovare lievi tracce nella terza Stillborn, o ancora di più in New World. Ma non è quella forza innovatrice, criticabile ma innegabile, che nella precedente release portava gli Hypocrisy a spaccare l’audience in due ed a lasciar immaginare evoluzioni future di grande portata, al massimo si tratta di una riproduzione abbastanza sterile di patterns ritmici alla Slipknot (“Iowa” docet), che rende la canzone carina ma nulla più.

C’è da dire che la classe del combo è innegabile, come sempre: ed è quella a tenere a galla un disco che altrimenti andrebbe perso in mezzo a molti altri. Ma la scelta di privilegiare pezzi dall’andamento doomeggiante (The abyss, The departure) senza alcun apporto da parte delle tastiere, presenti in modo leggero solo nella conclusiva War Within, può indiscutibilmente creare qualche problema all’ascoltatore, abituato a materiale più dinamico da parte di questa band. Una canzone come la sopracitata The departure, tra l’altro, si pone ai vertici dell’album per qualità: ottimi arrangiamenti sonori, il solito 4/4 di batteria con riffs elementari ma azzeccatissimi a sorreggerlo, lo screaming acidissimo di Peter ci riportano direttamente ai fasti di Abducted e The final chapter; ma il problema è che si tratta di un episodio, troppo isolato per convincere appieno.

Insomma, gli Hypocrisy ultimamente perdono qualche colpo, alternando grandi uscite a dischi un po’ troppo simili a “riempitivi”: il che non significa che la loro musica non resti al di sopra della media del mercato metal, ma solo che un aficionado può ogni tanto restare deluso dal loro operato, e che questo potrebbe essere il caso.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

Tracklist:

1. Born Dead Buried Alive
2. Eraser
3. Stillborn
4. Slave To The Parasites
5. New World
6. The Abyss
7. Dead Sky Dawning
8. The Departure
9. War Within

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