Recensione: The Astonishing

Di Roberto Gelmi - 7 Febbraio 2016 - 10:00
The Astonishing
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
80

We must learn to rise above the past
Before we can at last
Begin again

(“Begin Again”, Faythe)

 

L’eccezionalità di The Astonishing richiede un commento che esula dalla normale lunghezza di una recensione “di servizio”. Chi, comprensibilmente, non volesse sorbirsi la lettura integrale del seguente articolo può prendere in considerazione il solo capitolo finale riguardante il verdetto dell’album. Buona lettura.

 

Premessa

I Dream Theater, dopo tre decenni di onorata carriera, riescono ancora a far parlare di sé e rompono la consuetudine di pubblicare i propri studio album in un anno dispari, regolarità ben nota ai fan e che ha contraddistinto le loro uscite più importanti dal 1997 al 2013, a esclusione del sesto doppio full-length. Forse proprio il platter del 2002 (anch’esso uscito il 29 gennaio) è stato l’apice della sperimentazione messa in campo dai newyorkesi, acme del loro vero decennio creativo, terminato in un crescendo qualitativo invidiabile (i due LTE, Scenes from a Memory e Six Degrees Of Inner Turbulence, per l’appunto). È seguito un decennio tra alti e bassi, fino all’uscita di scena di Mike Portnoy e la svolta di A Dramatic Turn Of Events. Per ritrovare, o meglio per ridefinire, la propria identità il combo statunitense oggi continua a focalizzarsi su un “ritorno alle origini”, puntando più sul lato rock del proprio sound e meno su quello metal.
I Dream Theater sono amati e odiati come pochi, chi li odia li taccia di autoreferenzialità, chi li ama vede in loro anzitutto l’esempio incarnato della dedizione assoluta alla musica, della fatica e della professionalità ripagate. Una storia da film hollywoodiano – non (?) a caso il moniker del gruppo viene da lì – così rare ai nostri giorni. Coerenti con il dettato dell’opener di Train of Thought, oggi gli americani propongono il loro full length più lungo in carriera e non deludono.

 

Riguardo il concept

Petrucci questa volta, in veste di produttore, chitarrista e ideatore del concept, ispirato a suo dire (rimando all’intervista) dalla deriva tecnologica attuale e da saghe come Game of Thrones e Star Wars, ha dato spazio alla sua creatività narrativa e il risultato è un concept fantascientifico con diversi spunti interessanti (la facilità di scrittura del chitarrista è di lungo corso, basti citare le “recenti” suite “In presence of enemies”, “Ministry of lost souls”, “Illumination theory”).
La fantascienza, anzitutto, insieme a temi come la follia e il circo, ben si sposa con il progressive: vengono in mente gli Ayreon, o il cavallo di battaglia degli stessi DT, “Metropolis pt. I”, con la sua storica sezione solistica a delineare atmosfere robotiche. In secondo luogo, il tema della musica artificiale, contrapposta alla vera musica suonata da esseri umani, vuol essere una metafora della società attuale, sempre più indirizzata verso uno svuotamento di senso esistenziale. A pensarci bene, perché andiamo ancora a un concerto dal vivo? Semplicemente perché la musica per non risultare artificiale ha bisogno di essere incarnata da musicisti che la creano, non solo davanti a un pc, ma prima di tutto suonando uno strumento musicale (naturale estensione del corpo) e rivolgendosi (concretamente o in modo differito) a un pubblico di altri esseri umani. Questo vale per l’arte in generale, non solo per la musica.
Strizzando l’occhio verso testi come Fahrenheit 451, Brave new world e la saga di Matrix, il risultato finale è più che positivo. Otto personaggi principali, due famiglie contrapposte: da una parte l’imperatore Nafaruys, con la consorte Arabelle, il figlio/principe Daryus, la figlia Faythe (il nome è un palese senhal); dall’altra il protagonista Gabriel (nome teoforo) e suo fratello maggiore Ahrys, vedovo di Evangeline (presente in absentia) e padre del piccolo Xander (chiamato con l’abbreviativo X). Cast limitato e rigido per certi versi, ma i rimandi relazionali tra i personaggi sono utili per dare un minimo spessore psicologico alla vicenda.
Dal punto di vista geopolitico, invece, siamo di fronte a un mondo fantastico conteso tra il Great Northern Empire (che ha nel palazzo imperiale il suo centro di comando) e la Ravenskill Militia, forze che controllano rispettivamente il continente New Anglya e l’Endless Isleland (una sorta di Eubea futuristica). Scelte onomastiche e topografiche non originalissime, ma l’album, il prodotto in sé, nasce già all’origine commercializzato, seguendo la moda attuale dei racconti d’evasione che parlano in realtà dei limiti dell’uomo. Ecco, dunque, perché non ci sentiamo di bocciare anticipatamente la volontà creativa di Petrucci & Co. che operano con giusta cognizione di causa e un occhio di riguardo al doveroso business.
Il booklet è ben confezionato: i personaggi sono ritratti in CG (Ahrys sembra J.C. Denton di Deus Ex, Faythe è di una bellezza irreale) e il logo Majesty figura nell’esoscheletro dei NOMACS, le “Noise Machines” che conferiscono memorabilità al concept con il loro voyeurismo panottico. I NOMACS, infatti, (ne compaiono otto in copertina, come le otto sfere di Octavarium) sono il valore aggiunto, nel bene e nel male, dell’album. Nel bene, perché rappresentano il correlativo oggettivo della spersonalizzazione della musica; nel male, perché i loro intermezzi strumentali sono tanto agghiaccianti quanto pleonastici. Per concludere, una nota tecnica: all’inizio di ogni traccia in scaletta è indicato il luogo dove avviene la scena (esterno o interno) e se di giorno o di notte, con frequenti concessioni a notturni e albe speranzose. Qualche tocco di classe, perciò, non manca.

 

La musica

Prima di passare a una veloce (e rapsodica) descrizione delle canzoni in scaletta, va detto che l’ascolto iniziale del doppio album sconcerta e risulta difficilmente comprensibile. Dopo quattro o cinque ascolti, testi alla mano, iniziamo ad apprezzare il rapporto mimetico tra musica e realtà fittizia, gli snodi della vicenda, gli highlight del concept. Bisogna ribadirlo, questa volta la componente metal non è predominante, così quella progressive, presente ma in modo non invasivo. In questo sta la novità del disco, che, nonostante arrangiamenti e un plot dai toni apocalitticomessianici (si leggano i testi di “Moment of Betrayal”), risulta coeso e senza cadute di stile, presentando diverse ballad e momenti toccanti. Detto ciò, con un sorriso sulle labbra si può soprassedere alle venature mitologiche presenti nel concept e al ritratto ideale, e un po’ ingenuo, della musica taumaturgica che salverà dostoevskianamente il mondo.
Un’ultima curiosità: l’etimologia del termine “astonishing” rimanda a “thunder” (dal latino “ex-tonare”), in questo caso bisogna stare attenti a non prendere una abbaglio restando troppo letterali, il metal roboante qui non è di casa. L’aspetto stupefacente è proprio del concept e nel dono posseduto da Gabriel.

L’avvio del primo atto, il più lungo e che occupa l’intero primo disco, è in sordina, con un intro inquietante (ambientato sopra il palazzo dell’imperatore) che ha il pregio, tuttavia, di catapultarci subito in un’atmosfera sci-fi disturbante (come nel caso dell’intro cupo di basso di “As I Am”). “Dystopian Overture” è un bel pezzo strumentale progressivo, inizia con un riff di Petrucci che ricorda “A nightmare to remember”, poi prosegue con rimandi a Gentle Giant, U2 e orchestrazioni trascinanti. Tutto scorre in modo fluido e il singolo “The gift of music” deve molto ai Rush. Sgombrate le tinte oscure dell’intro, subito si fa largo l’immagine di una speranza concreta, il vero leitmotiv dell’album.
La breve semiacustica “The answer” ricorda, più che “The answer lies within”, “Benearth the surface” (brano cui si rifanno altri brani in scaletta), un cameo che tratteggia il dilemma interiore di un eroe combattuto tra la solitudine e un destino da leader (questione che tocca nel vivo anche le rock star, come già tratteggiato in “Misunterstood”). La presenza del pianoforte (tra gli strumenti caratterizzanti dell’album) in “Lord Nafaryus” è una scelta vincente, così l’accostamento degli acuti di Labrie al drumwork martellante di Mangini. Il brano continua prog. e tornano in mente certe soluzioni ritmiche di Octavarium e Systematic Chaos. Dopo certe sonorità, simil-Ayreon, presenti in “A Savoir in the square” (non possono mancare le trombe imperatoriali), senza soluzione di continuità Gabriel ammalia la folla con il suo canto di speranza. Ottimi i synth di Rudess, un tuffo tonificante nel passato.
Si continua su toni tranquilli, “Act of Faythe” presenta armonie struggenti e LaBrie interpreta Faythe con maestria, femminilizzandosi quanto possibile (d’altra parte l’artista e l’androgino sono la stessa persona). Nelle liriche del ritornello si avverte una certa sensualità, basti citare: «My music player / my private paradise / My music player / A refuge I must hide». È un bene, il disco guadagna in eclettismo, anche se siamo lontani dalle vette di pathos di Scenes from a memory (in particolare di “Home”). “Three days” si dimostra uno dei brani più theatrical del lotto, il metal torna in scena e sembra di ascoltare i Savatage (ma i DT hanno avuto come spalla anche i canadesi UnExpect). Di seguito a un breve pezzo dei NOMACS troviamo quella che dovrebbe diventare la “Spirit carries on” del nuovo concept: “Brother, can you help me?”, con fanfara militare e tema principale orecchiabilissimo (il testo, inoltre, he si memorizza con un paio di ascolti). Si può criticarne l’eccessiva semplicità, tuttavia questa è funzionale al concept e, soprattutto, verosimile: un inno è tale se non si perde in sottigliezze fuori luogo. “Ravenskill”, secondo brano più lungo in scaletta, inizia con un’alba cullante raccontata dal narratore. L’eroe è alla ricerca del padre, quale tema più attuale? La seconda parte del pezzo presenta momenti incalzanti, con tanto di campane e cadenze pompose, rese solenni dalle chitarre droppate. Dopo la ballad “Chosen” con inserti di violoncello, “A tempting offer” è uno snodo chiave del concept. Un cattivissimo Daryus impone ad Ahrys una scelta diabolica.
Siamo sul finire del primo disco. “The X aspect” è l’ennesima buona ballad, con tanto di hammond e nel finale il tema di “Brother can you hear me” suonato con una cornamusa da Eric Rigler. Il Destino bussa alla porta… Gran finale d’atto con “A New Beginning”, tra gli highlight di The Astonishing. Tanta solarità, Mangini vero mattatore, cambi di atmosfera e una seconda parte strumentale da pelle d’oca, con Petrucci in gran spolvero, il quale intesse un assolo faraonico, con richiami alla suite “Rise the Knife” (e alla sua militanza nel primo album degli Explorer’s Club).

Proseguiamo con il secondo disco, un ascolto dilazionato è sconsigliabile, anche se, va ammesso, avere due ore abbondanti per dedicarsi al concept è impresa ardua: passati ormai i tempi dell’otium virgiliano…
Il secondo atto, se può confortare, si presenta più snello. Dopo una breve overture, una nota tenuta di oboe lascia spazio al pianoforte di Rudess, accompagnato dal violoncello. “Moment of Betrayal” (secondo singolo apripista) rappresenta il momento proditorio di un Arhys inquieto, deciso a optare per la felicità del figlio, piuttosto che alla libertà dei ribelli: la questione etica ha connotazioni da tragedia greca. Il sound tirato ricorda il metal di “Behind the veil”, peccato per un ritornello non indimenticabile (LaBrie è troppo sguaiato sugli acuti, Portnoy avrebbe di certo trovato per lui soluzioni vocali differenti); la seconda parte, tuttavia, è convincente, si respira aria da A Dramatic Turn of Events. Segue un’altra scena notturna, con testi dalla stucchevole allusività («music will rise like a phoenix in the night»), Jordan regala emozioni nel finale, così come nel suo ultimo album tonale The Unforgotten Path.
Superati i minuti pseudo-natalizi di “Begin Again” (mi riferisco alle campane), è la volta della resipiscenza di Ahrys, sottolineata da cadenze drammatiche e un dirty organ da manuale. La doppia cassa di Mangini picchia duro: il combattimento, del resto, è cruento (i suoni campionati potevano essere più incisivi, ma tant’è) a voi scoprirne l’esito tragico. “The walking shadow” è un brano dalle buone potenzialità, ma inconcepibile fuori dalla cornice narrativa nella quale è stato collocato (il piccolo Xander urla il suo dolore). Le ritmiche rocciose della 6-corde accostate a un organo “awakeniano” per un attimo riportano la mente agli anni Novanta. Dopo un secondo colpo di scena drammatico, Ruddess si ritaglia un po’ di spazio con il suo synth in “My Last Farewell”; in “Losing Faythe” è l’imperatore, invece a confidarsi con sua moglie Arabelle circa la sorte della figlia.
Siamo sul finire dell’album: dopo l’accoppiata acustica “Whispers of the wind”- “Hymn of a Thousand Voices” (una sinfonia di compassione con inserti country), è la volta dell’istant classic “Our new world”, un brano diretto, cristallino, che farà furore in sede live. Il riff d’apertura ricorda “About to crash” (come quello di “The looking glass”), il drumwork di Mangini (con controtempi geniali) è ficcante e sopraffino (difficilmente Portnoy avrebbe fatto di meglio), il refrain con let ring, una garanzia. Il tempo dei NOMACS volge al tramonto, la title track finale richiama ancora la già citata “Beneath the surface” e ripropone, con perfetta intratestualità, il tema di “Brother can you hear me”, questa volta amplificato da connotazioni commoventi. Tutto si conclude in modo fastoso, anche se il crescendo finale non arriva ai livelli dei momenti catartici di suite come “Octavarium” e “SDOIT”. Probabilmente una scelta precisa, l’intero concept si muove, come già detto, su coordinate estranee a sensazionalismi fini a se stessi.

Il verdetto

Questa la musica, ora il verdetto. Tutti aspettavano un nuovo concept targato Dream Theater, ora che è tra le nostre mani quasi non ci sembra vero.The Astonishing è un album spiazzante (forse sta qui il vero senso del titolo). Sarà criticato da chi si aspettava un disco differente, sarà apprezzato da chi non vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. I newyorkesi avrebbero potuto puntare sull’ennesimo sfoggio di tecnica; hanno, invece, osato qualcosa in più proponendo il loro secondo concept tout court (il sesto e l’ottavo studio album sono album concettuali solo lato sensu). Brani come “The gift of music”, “Brother, Can You Hear Me?”, “A New Beginnig” e “Our New World” sono il meglio che può dare a oggi il quintetto statunitense.
Il full length presenta diversi limiti intrinseci, a partire dall’assenza di un cast di voci variegato, cosa che avrebbe valorizzato di gran lunga il concept. LaBrie la sa lunga sulle rock opera (pensiamo ai suoi ruoli da protagonista in The Human Equation, nel progetto Leonardo, nei Frameshift), però la sua prova vocale non è più quella di un trentenne, come giusto che sia del resto. La presenza della FILMharmonic Orchestra di Praga e del coro (con la supervisione di David Campbell, già attivo con Metallica e Rush), invece, sono tra gli aspetti più riusciti del lavoro e mascherano certa frettolosità nel secondo atto, alcuni momenti superflui, la presenza troppo umbratile di Myung, ecc… Il mixaggio opera del riconfermato Richard Chycki è senza infamia e sanza lode, forse si poteva fare meglio con i suoni della batteria.
Venendo al concept, la storia è lineare, ha un suo svolgimento, un crescendo drammatico, una sua ragion d’essere. Bissare la perfezione di SFAM era impossibile, farlo sarebbe stato controproducente. Non bisogna incappare, infine, nella tentazione di confrontare l’ultima uscita dei DT con album storici come Tommy, The Wall, Operation: Mindcrime, Snow (degli Spock’s Beard), 2112 e Clockwork Angels dei Rush (perdonate l’enumerazione arbitraria). Unicuique suum dice il saggio.
La vera forza del platter sta nelle tante atmosfere proposte (e lidi sonori mai solcati in precedenza dai DT) che creano un’identità sonora variegata (dal prog. al rock, al metal, passando per inserti country, cornamuse e marce militari): si può dire che gran parte degli aficionados di nuovo e vecchio corso resterà soddisfatta da The Astonishing, altro bell’album che ci regala l’inizio del 2016, insieme alla musica di Steven Wilson, Rhapsody of Fire, Avantasia e Megadeth (che hanno intitolato, guarda caso, il loro ultimo album Dystopia e in copertina presenta alcuni droni sferici simili ai NOMACS).
Finché il timoniere Petrucci, sempre più mastermind unico del gruppo americano, avrà la creatività necessaria per mettere in scena parole e immagini degne del Teatro del sogno, potremo dormire sonni tranquilli, la musica dei DT sembra vivere una seconda giovinezza. Li aspettiamo a Milano il giorno di san Patrizio…

Nota a margine: la standard edition dell’album prevede un packaging simile a quello di A Dramatic Turn of Events, il booklet è fissato all’interno purtroppo. Per gli amanti delle deluxe edition, invece, va segnalata l’edizione in doppio vinile con tanto di gadget vari.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

CZUp0BqWwAAxe q

 

Ultimi album di Dream Theater