Recensione: The Brethren Of The Long House

Di Francesco Masci - 19 Aprile 2011 - 0:00
The Brethren Of The Long House
Band: Riot
Etichetta:
Genere:
Anno: 1996
Nazione:
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82

Se in un gruppo di metallari si gridasse “RIOT?”, quale sarebbe l’immediata risposta? La maggior parte risponderà “Thundersteel!”. O magari “Nightbreaker!”. Quelli più anziani biascicheranno “Fire Down Under…” Ma se avrete molta fortuna, qualcuno vi sussurrerà “The Brethren Of The Long House“. Questo album è da sempre molto sottovalutato. Contrappone un misero trafiletto ai chilometri di carta/bit versati sui summenzionati capolavori. Vi chiedete perché? Perché si tratta di un disco complesso. denso, maturo.

La sua fruizione esige rispetto, dote che molti metallari novantiani gettarono tra le fiamme dell’innovazione a tutti i costi. A molti di loro bastò guardare la (effettivamente mediocre) copertina per schifarsi: musica banale, tema banale, bah. La produzione, diametralmente opposta alle sciabolate cristalline allora in voga, chiuse loro anche le orecchie.

Dopo tanti anni, credo sia il momento di rendere giustizia a un diamante grezzo, troppo a lungo confuso e miscelato col pietrisco. Il tema prescelto, ovvero la guerra tra i Nativi Americani e i coloni europei, può sembrare trito e ritrito: ci erano già allora passati in molti, tra cui due mostri sacri come Iron Maiden (The Trooper) e Anthrax (Indians). Ma basta addentrarsi tra i testi per capire di aver sbagliato totalmente l’associazione di idee.

Qui non si parla di Far West; niente Toro Seduto, niente revolver, niente saloon e niente totem. Il termine “Fratellanza della Long House” (dalla tipica abitazione, lunga fino a sessanta metri, che ospitava più famiglie) indica infatti la Confederazione Irochese, o Popolo delle Cinque Nazioni. Grandi guerrieri, furono decimati dalla Guerra Franco-Indiana (XVIII secolo) assieme ai loro vicini/nemici Uroni. Le storie delle loro battaglie e del loro straordinario coraggio sono quasi sconosciute al grande pubblico, che però ricorda assai bene il nome della Seconda Nazione.

I Controllori della Porta Orientale. I Mohicani. Last Of The Mohicans, breve accenno di cover del celebre tema,  fa appena in tempo a riscaldare le orecchie, prima che una gran pedalata di Macaluso faccia decollare Glory Calling. Un’epica cavalcata ottiantiana accompagna le esortazioni di quello che potrebbe essere tanto un colono inglese quanto un indigeno Irochese: questa terra è stata conquistata con sangue e sudore e non la abbandoneremo mai. Rolling Thunder è la risposta a quelle esortazioni, non tutti vogliono combattere, qualcuno si accontenta di fuggire.  E magari un fuggitivo sarà anche un traditore. Ma un traditore vivo.

E’ sotto la pioggia che un Irochese sconfitto, circondato da morte a perdita d’occhio, si rende conto di questa semplice verità. Se ne rende conto, ma non l’accetta: meglio morire, se l’alternativa è perdere la patria. Rain è un pezzo criminalmente sottovalutato, con i suoi arpeggi melodici ma carichi di forza (che si scarica in un solo memorabile). Wounded Heart è potente e apprezzabile, nel suo narrare la presa di potere di un nuovo capo Irochese, e fa da preludio alla grandiosa chiamata a raccolta delle Cinque Nazioni. The Brethren Of The Long House picchia nel petto con il suo basso marziale e col canto di un DiMeo in stato di grazia: dopo un pezzo come questo anche a Gandhi verrebbe voglia di roteare con foga il tomahawk.  La title track funge da spartiacque: nella seconda parte del disco i Riot sembrano procedere con piedi di piombo e freni tirati. La cover di Out In The Fields è molto ben realizzata, ma le analogie con il tema del disco sono didascaliche e tirate per i capelli.

Santa Maria è una gran ballata con sottofondo di chitarra classica, nonché un bell’enigma (almeno per il sottoscritto): per quanto venga istintivo accostare il testo alle peripezie del leggendario Cristoforo Colombo, l’ambientazione mi fa invece propendere per Samuel de Champlain, grande esploratore e fondatore di Quebec City. Ma sto divagando. Ghost Dance è il vero anello debole dell’album, un po’ troppo sfumata e “nebulosa” rispetto al resto. Shenandoah riprende il famoso pezzo folk, mentre Holy Land parla della battaglia tra gli Ottawa (guidati dal capo Pontiac) e gli Inglesi. E’ solo dopo quest’ultima canzone, che si scopre perché i Riot non si sono sforzati troppo.

Hanno tenuto per il finale quello che per il sottoscritto è il miglior pezzo che questo gruppo abbia mai suonato. Mohicans (Reprise) è un capolavoro che da solo vale l’acquisto del disco. Un riarrangiamento che farebbe tirar giù il cappello persino a Keith Emerson, che procede per quasi sette minuti a passo di carica sugli arabeschi della chitarra e sul tiro di una sezione ritmica che al confronto Thundersteel pare muoversi col deambulatore. Magari sto esagerando un po’ , ma non riuscirò mai a spiegarvi quanto valga questo singolo brano se non lo ascoltate.

Sul fronte puramente tecnico, tutti quanti sfoggiano prestazioni perfette, con una menzione d’onore per il magistrale DiMeo. La produzione riesce a fare un mezzo miracolo, trasportando di peso agli sgoccioli del Millennio il suono rotondo e pastoso degli anni ’80.  Spero di essermi spiegato a dovere. Ma soprattutto di aver finalmente donato un degno abito a questa Cenerentola nella discografia Riot.  

 

Francesco Masci

 

 

Tracklist:
1. The Last of the Mohicans
2. Glory Calling  
3. Rolling Thunder
4. Rain
5. Wounded Heart
6. The Brethren of the Long House
7. Out in the Fields
8. Santa Maria
9. Blood of the English
10. Ghost Dance
11. Shenandoah
12. Holy Land
13. Mohicans Reprise

Line up:
Mike DiMeo – vocals
Mark Reale – guitar
Mike Flyntz – guitar
Pete Perez – bass
John Macaluso – drums
 

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