Recensione: The Conscious Seed of Light

Di Damiano Fiamin - 5 Novembre 2013 - 0:01
The Conscious Seed of Light
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Anno: 2013
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71

Duri, durissimi e indigesti. Per chi scrive, il primo approccio con questi Rivers of Nihil non è stato certo dei più facili. Ogni volta, spento lo stereo, mi interrogavo su come avessero fatto a procurarsi un contratto con una grande etichetta, proponendo un prodotto di questo tipo. Capita spesso che un disco non riesca a far breccia nel nostro cuore ai primi ascolti ma questo “The Conscious Seed of Light “ ce ne ha messo di tempo prima di svelare tutte le sue qualità. Nonostante tutto, c’era sempre qualcosa che mi spingeva a rimandare la bocciatura e a concedere una nuova possibilità al quintetto statunitense.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di delineare un contesto di riferimento in cui inserire questi esordienti e la loro musica. Prima di sentirsi pronti per il debutto ufficiale, i nostri si sono presi ben quattro anni di riscaldamento in cui, dopo un paio di EP e tanta attività dal vivo, hanno affilato le proprie armi e raffinato la tecnica, in modo da presentarsi nella maniera più soddisfacente al grande pubblico.
Ma cos’hanno da offrirci questi ragazzi? Il progetto di Dieffenbach e soci non posa certo su delle basi particolarmente originali: gli ascoltatori troveranno racchiuso nelle tracce di questo debutto un death metal vecchio stampo di chiara matrice nordamericana, freddo e tagliente, in cui il potente growl del cantante si intreccia su intelaiature strumentali caratterizzate da un elevato livello tecnico e da un’elevata propensione alla brutalità armonica.

Il disco, nelle intenzioni dei suoi realizzatori, dovrebbe essere il primo di una tetralogia dedicata alle stagioni. Non aspettatevi dei moderni Vivaldi in salsa metal, però, perché i musicisti non hanno deciso di dar vita a un concept album strictu sensu quanto, piuttosto, di elaborare le idee collegate al flusso del tempo e di suddividerle per capitoli. In questa prima parte, consacrata alla Primavera, vengono dunque sviscerati concetti ancestralmente riconducibili alla stagione stessa, come la crescita e la nascita, analizzandoli e descrivendo il loro sviluppo in un mondo post-umano. Nonostante la matrice comune, i brani non seguono un filo narrativo unico, ma si sviluppano in maniera indipendente, almeno per quanto riguarda i testi.

Paradossalmente, è proprio sotto quest’aspetto che il disco, a mio avviso, mostra uno dei suoi maggiori problemi: l’omogeneità dell’ascolto. I brani sono strutturati tutti in maniera molto simile e, sebbene molto accattivanti presi singolarmente, tendono a uniformarsi durante l’ascolto e a perdere la loro soggettività. Il fenomeno ha due cause scatenanti: da un lato, troviamo alcune ingenuità di troppo da parte di una band che, nonostante la gavetta, è sicuramente molto giovane e ha ancora grande spazio di miglioramento; dall’altro, abbiamo la produzione fin troppo pompata di Erik Rutan (frontman degli Hate Eternal ed ex-Morbid Angel). Il risultato finale, eccessivamente roboante e artefatto, contribuisce alla sensazione di straniamento che, fin dai primi ascolti, rende complesso l’avvicinamento all’offerta musicale del quintetto di Reading.

“The Conscious Seed of Light” è un buon album, che ha tra le sue pecche principali quella di essere eccessivamente pretenzioso. Sebbene tecnicamente capacissimi e in grado di produrre un CD con svariati spunti interessanti, i nostri si sono montati un po’ troppo la testa e hanno voluto strafare. Come dei neo-patentati a cui vengano consegnate le chiavi di una Ferrari, questi ragazzi si sono trovati a utilizzare dei mezzi che non sono ancora in grado di gestire a pieno ma a cui si sono affidati con eccessiva sicurezza. La sicumera derivante dal fatto che eventuali errori sarebbero stati comunque piallati li ha portati a commettere qualche leggerezza stilistica di troppo. Il risultato è un disco di buon livello, ben suonato, ben prodotto e con delle parti che lasciano ben sperare per il futuro; peccato solo per il generale senso di appiattimento dopo un ascolto prolungato e per la sensazione di opportunità mancata che aleggia tra le tracce.
Se nel secondo capitolo della tetralogia i nostri si concederanno di andare un po’ più a briglia sciolta e si lasceranno andare a qualche azzardo in più, avremo di fronte un prodotto davvero interessante.
Questo primo episodio è indubbiamente consigliato agli amanti del genere e a coloro che cercano un robusto connubio tra potenza ed esecuzione curata. Per gli altri, ho qualche dubbio.

Damiano “kewlar” Fiamin

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