Recensione: The Crowning of the Fire King

Di Stefano Usardi - 23 Ottobre 2017 - 0:28
The Crowning of the Fire King
Band: Sorcerer
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2017
Nazione:
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85

Gran bella scoperta questi Sorcerer, quintetto svedese giunto, con questo “The Crowning of the Fire King” al secondo disco ufficiale. Ora, dato che la fondazione del detto gruppo risale addirittura al 1988 si potrebbe pensare che questi signori se la siano presa comoda: in realtà non è così dato che il gruppo, dopo l’abbandono di Hagel per entrare nei Tiamat, si è sciolto a metà anni ’90 per poi riformarsi nel 2010 ed iniziare, stavolta, a fare sul serio. Ecco quindi che in sette anni i nostri eroi pubblicano il primo vero album, “In The Shadow of the Inverted Cross”, un singolo, un EP e il qui presente “The Crowning of the Fire King”.
Già dall’ottima copertina si intuisce, più o meno, il genere proposto dai Sorcerer, o comunque si capisce che i nostri non suonano esattamente happy metal: un doom dalle tinte epiche, infatti, è ciò che costituisce la materia prima di questo lavoro, una materia densa, insistente, a tratti ossessiva e appiccicosa ma anche dannatamente evocativa, sapientemente maestosa e soprattutto con il giusto grado di sofferta pesantezza, impreziosita infine da una prestazione maiuscola di Anders, la cui voce si incastona meravigliosamente nella corazza strumentale dei suoi colleghi.

La partenza è possente: “Sirens” è una di quelle canzoni che avanzano inesorabili facendo terra bruciata intorno a sé, strisciando sottopelle come un veleno. Chitarre grosse e minacciose intessono trame spettrali sorrette da una sezione ritmica aguzza, aprendosi poi in improvvisi squarci melodici dal sapore malinconico e in un solo breve ma d’effetto. Che dire: come apripista non c’è male, ma il bello deve ancora venire, come sembra voler annunciare l’arpeggio maligno della successiva “Ship of Doom”. In meno di un minuto le chitarre elettriche iniziano il loro gioco al massacro di chiara reminiscenza Candlemass, seguite a ruota da un basso e una batteria decisamente intimidatori. Si entra qui nei territori del doom più propriamente detto, con tempi lenti e soverchianti che solo di tanto in tanto rinunciano alla loro pesantezza per cedere spazio a brezze strumentali meno inquiete. L’intermezzo centrale più disteso, che precede la sezione solista dal sapore ai limiti del progressive, spezza l’andamento della traccia donandole sfaccettature insospettate, diluendosi poi in un finale calmo, pacato ma anche velatamente inquietante. Altra traccia, altro cambio atmosferico: le melodie mediorientali che aprono “Abandoned by the Gods” sembrano catapultare l’ascoltatore direttamente tra le ombre di qualche antico tempio sumero. Anche qui il lavoro del gruppo si mantiene su livelli atmosferici notevoli trasmettendo un senso di incombenza desertica e opprimente, stemperato solo ogni tanto dai limpidi squarci melodici che si insinuano tra i riff pesanti della coppia di chitarre. “The Devil’s Incubus” , introdotta da un arpeggio malato ma al tempo stesso ammaliante, torna a lidi musicali più convenzionali col suo incedere lento, sofferto e sfiancante che si carica, però, di plumbea maestosità con l’ingresso in scena dei possenti cori. L’intermezzo narrato centrale apre a una sezione apparentemente più distesa la quale, a sua volta, cede il terreno a una sezione solista dal retrogusto, anche qui, quasi progressive rock, prima di tornare a sciorinare riff fangosi in tempo per il finale. “Nattvaka” altro non è che un breve ma a mio avviso deleterio intermezzo strumentale, il cui andamento fin troppo disteso spezza la tensione narrativa di un album giocato, fin qui, su una forte tensione. Per fortuna il pezzo dura giusto due minuti e mezzo e si risolleva nel finale introducendo nell’arpeggio una nota di allarme che prelude alla mazzata “Crimson Cross”, in cui i Candlemass si fondono coi Black Sabbath dell’era Martin per dar vita a una traccia lenta e possente, dall’accentuato trionfalismo e l’incedere battagliero e maligno. Al solito, la sezione solista arriva a spezzare la pesantezza del brano con una parentesi melodica meno oppressiva, ma tutto torna alla normalità nel tempo di un battito d’ali, col gruppo che ricomincia a dispensare martellate fino al termine dell’ennesima canzone da pollice alto. Scroscio di pioggia, rumore di tuoni e il gracchiare di un corvo aprono la title-track, seguiti a ruota da un riff doom da antologia, sgranato e ragliante, che cede poi il passo a una voce più soffusa e delicata del solito, sorretta da tastiere tese e molto atmosferiche. Il tono complessivo si mantiene elegiaco per buona parte della traccia, salvo poi impennare il tasso di magniloquenza in corrispondenza del ritornello e tornare al punto di partenza, in un loop ripetuto ed ipnotico che trova la sua logica conclusione nel finale, ripetitivo e insistente, dall’intenso retrogusto rituale. Chiude l’album (o almeno la versione in mio possesso, dato che ne esiste una con due bonus tracks) “Unbearable Sorrow”, che con i suoi dieci minuti scarsi è la più lunga dell’album. Una intro soffusa, dalle reminiscenze quasi Vangelis-iane, apre a un arpeggio oscuro e desolato, che si irrobustisce pian piano con l’ingresso del resto del gruppo ed esplode nella melodia portante in cui si torna a percepire l’aura rockeggiante dei Sabbath del periodo Martin, con power chords levigati e melodie malinconiche punteggiate d’inquietudine e un Anders sugli scudi che, come del resto in tutto l’album, trasmette pathos a manciate fermandosi sempre un attimo prima di scadere nel troppo che stroppia. L’andamento della canzone subisce una brusca quanto breve accelerazione dal sapore eroico nel solo, che benedice la parte centrale subito prima di ributtarsi a capofitto nella romantica e trionfale melanconia che domina la seconda metà della traccia e ci accompagna al finale più soffuso stemperandosi pian piano, concludendo in modo pregevole un album di gran livello.

Una delle caratteristiche peculiari del doom metal, che lo differenziano dagli altri sottogeneri, è, a mio modestissimo avviso, quella di rendere più rapidamente individuabili i gruppi mediocri: mentre con generi come il power, l’heavy o financo il black si può sfangare un risultato non esaltante buttandola sulla velocità, sulle melodie maestose o sulla pura coatteria musicale, la stessa cosa non si riesce a fare con il doom, genere già in partenza piuttosto ostico che, se non si conosce bene, tende ad annoiare facilmente l’ascoltatore medio. Per fortuna, i Sorcerer non solo il genere lo conoscono molto bene, ma lo sanno anche sviluppare in un modo decisamente intrigante e con un ottimo gusto!
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