Recensione: The Day of Victory

Di Marco Migliorelli - 10 Maggio 2014 - 18:25
The Day of Victory
Band: Dark Lunacy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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85

Le due città si somigliano; nella cenere, nella caligine. L’una dentro l’altra, Leningrado e Berlino sono un unico luogo che la forma sconvolta di un volto comune assimila e divora: il volto della guerra. Poco più di un anno separa gli eventi capitali legati ai nomi: la battaglia nel cuore della Russia, vinta dall’Inverno con i suoi figli e la marcia nel cuore pulsante del Reich, capitale ancor oggi pregna di una malinconia affascinante che ha ormai abbandonato buona parte dell’Europa fatta di “grandi mete”.

Diversi anni separano anche The Diarist, l’album che i Dark Lunacy dedicarono all’epopea russa di Leningrado, l’assedio, da The Days of Victory, ultima recente fatica di questi capitani di lungo corso in cui la resistenza di Stalingrado, epica della battaglia, è vissuta “destinalmente” come lo scacco definitivo a Berlino.

All’annuncio di questo disco e dopo averne comprese le tematiche e viste le prime immagini dell’artwork, ho pensato a Boris Pasternak e ad alcuni versi dedicati al Tenente Schmidt, della Flotta di Sebastopoli; nonostante la sua mitezza, si trovò a capo di una grande rivolta locale contro l’infamia zarista nell’anno decisivo della Rivoluzione d’Ottobre: “E si recò su una torpediniera/ lì dove, pescando il porto e il cielo/nelle reti a strascico, fra le attrezzature,/ come un’esanime famiglia di imperatori cinesi,/ come una dinastia di lontananze fumavano le navi” Boris Pasternak, “Il Luogotenente Schmidt” Ah quanto è lontano il Volga rosso di sangue dalle acque ancora quiete innanzi a Sebastopoli! Il Volga, il cui canto ancora riecheggia per le strade semidistrutte di una canzone come ‘Aurora’ -ormai un classico della band-, si è frapposto anche fra i Dark Lunacy ed il loro destino.

Nel 2010, Weaver of Forgotten è l’album che sancisce un nuovo corso. Non si intenda una rivoluzione musicale, quanto un giro di vite attorno all’immagine di una formazione che arriva ad oggi coesa; le acque del Volga han separato, tracciato nel tempo ma non travolto l’essenza, il concetto e l’ispirazione.

The Days of Victory segue il filo conduttore di The Diarist ma non rinnega musicalmente l’esperienza più gotica e intimista, nei concetti tanto quanto nelle composizioni (scevre di afflati corali e richiami epocali), consolidata da Weaver of Forgotten; e come potrebbe? …e perché dovrebbe?

Il 2010 è un anno decisivo. Non c’è posto per l’epopea storica, il momento è personale, delicato. E le acque del Volga scorrono ancora. Separano ma non travolgono davvero. Il Volga non è il Lete, nulla viene dimenticato. Così torna maggio e con questo i giorni della vittoria. I giorni della Storia. Ma la vittoria non entra a Berlino trionfalmente e non si annuncia con fanfare e parate. La musica dei Dark Lunacy scava nell’intimità della vicenda storica. Non sacrifica il dramma all’ideologia e così è veramente la Storia a parlarci, nè diversamente potrebbe. La vittoria arriva sulle note di una fisarmonica. Questa l’intro. Lenta, si consuma per un minuto. Forse crepita il fuoco oppure è ghiaccio che scricchiola. Non sappiamo se è un bivacco di tedeschi o di soldati russi. Forse né degli uni, né degli altri. Il vento spira e ne porta il suono.

Sono bambini infatti. Bambini, ragazzi. Ed è per loro che parte Red Blocks, l’opener del nuovo album. Le chitarre. Poi il fuoco. Esplode la voce di Mike, che qui duetta con Paolo Ojetti degli Infernal Poetry, presente anche in From the Don to the Sea: “In a land of poppies, under the Red flag/ Believe in my promise and march with my children… “

Si è detto che l’esperienza di Weaver of Forgotten non viene messa via. Red Blocks ne è conferma. Se da una parte tornano protagonisti i cori russi, dall’altra le chitarre tornano ad attingere nel crogiuolo di sonorità del precedente album. La personalità del nuovo gruppo non perde la rotta nel ritorno al tema storico. Le canzoni restano infatti chiare nei suoni che non sono impastati, amalgamati come potrebbe suggerire la presenza dei cori tradizionali dell’Armata Rossa (e come apparivano a chi scrive in The Diarist). Le parti dialogano fra loro e rimangono lucide le composizioni. Se in The Diarist viene a stento trattenuta una dimensione corale e collettiva dei temi e delle strutture musicali, in questo nuovo lavoro, sono persistenti delle tonalità comunque più intime. Non intimiste, come in una Curtains: intime, così che i cori restano pur epici, sullo sfondo. Uno sfondo persistente però, quello dei cori, al punto da costituire colonna portante, caratterizzante del disco.

Ecco che incede Sacred War. Alla solennità corale che intima la sacralità dell’atto di guerra, fa da controcanto un Io- cantante dilacerato fra lucida determinazione e squarci di cruda consapevolezza. Siamo nell’intimità del soldato-uomo. “Follow my pace, run with me for the victory/ and cry, cry… another cry in the mist/Believe in my promise, in my foolish sacrifice”. La canzone apre con un carillon, unicamente quel suono. Seguirà certo l’esplosione degli strumenti, la guida armonica e al contempo pesante della chitarra di Galassi e la batteria a martello come incorporasse delle postazioni da 88, ma è a questi dettagli strappati al fragore che viene affidata l’attenzione di chi si pone all’ascolto ed è in questa alternanza di atmosfere che va dipingendosi ‘l’anima in guerra’ di ogni singola canzone: al death sferzante cui ci si abbandona con From the Don to the Sea, nell’epica corale dell’assalto, si va mescolando una traccia di suoni e melodie poste per “inciso” lungo tutta la durata dell’album, fra le linee melodiche principali, ed è pura generazione di immagini: il vento e la fisarmonica all’inizio, poi quel carillon, il lavoro essenziale del violino e più avanti, verso la conclusione di un viaggio che si vorrebbe molto più lungo, anche un inedito intermezzo di chitarra acustica che chi scrive sinceramente non si aspettava.

A guidarci sono voci, non solo frammenti di immagini (non c’è veramente posto per i grandi scenari, che albeggiano e poi crollano subito dopo, franti dal duo serrato di chitarra e batteria). L’Io-cantante si fa doppio, quando a rincorrersi sono, in screaming, le voci di Lunacy e Ojetti. Il cantante degli Infernal Poetry si mostra immediatamente fratello-di-voce con Lunacy ed insieme duettano gridandosi l’un l’altro i testi (ma è, concettualmente, un Io unico che si scinde e moltiplica), come a tentare disperatamente di sovrastare il fragore di una realtà divenuta comprensibile solo attraverso l’astrazione dei ‘grandi obiettivi della patria’, spesso troppo lontani dalla miseria della guerra.

Il cantato di Mike è quello che conosciamo da sempre: non perde la propria caratteristica teatralità (che appartiene anche alla sua stessa persona, sul palco) e si divide fra il monito definitivo e l’interpretazione ficcante dell’ Io-di-guerra; un Io narratore. Nell’intuire quasi una dialogia “tragica” fra l’Io e il Coro, balza all’occhio un altro elemento chiave di questo disco: la necessità dello screaming-growling in relazione ai cori e ai contributi in clean vocals di Caterina Trucchia. Senza questa contrapposizione perderebbe vigore il cantato principale e si dissolverebbe all’interno delle canzoni stesse l’utilizzo dei cori russi. Ascoltate Anthem of Red Ghosts per farvene un’idea. Insieme a Red Blocks è il brano più veloce e compatto del lotto.

L’album non vive di sola velocità e a Caterina Trucchia, è affidato il compito di dar voce alle sezioni più lente in cui spesso, e non vi dico dove, chitarra acustica e violino si incontrano per tributare a semplicità e raffinatezza. A mezzo di suggestioni la sua voce ricorda quella di Elena Previdi, storica cantante dei Camerata Mediolanense e non sorprendono delle tinte marziali che affiorano fra i quaranta minuti dell’album. Il dialogo non si limita alle sole voci. Questo lato della medaglia è il più evidente, l’altro è più sfuggente ed è di natura strutturale: se la prima metà del disco scorre monolitica, disseminata di tracce sonore-immagini, la seconda parte del disco tramonta nella meditazione e nell’intimità. Ai cori prendono spazio ritmiche più lente e la voce stessa di Mike si fa a tratti reiterata, ossessiva quando non riflessiva. A The Mystic Rail, gemma variegata del disco della quale verrebbe da scrivere e molto anche solo per puro piacere del raccontarla, fa da controparte una enigmatica, controversa Victory: l’attacco alla Amon Amarth ed una prima metà del brano trascinata da cori e cantato viene quasi smentita, bilanciata poi ed infine stravolta da un finale in diminuendo in cui la voce si fa remota, la chitarra stridente e ricorsiva.

L’ago della bilancia si spezza a meno due minuti e venti esatti dalla conclusione con parole vibranti e fra le più forti del disco. Liricamente uno dei momenti migliori per chi scrive: A day of revenge shall come, for all, in a partisan cry/ build another wall for peace in the world and there’ll be justice for all. Il testo resta fedele al suo epilogo narrativo e ‘Victory’ chiude liricamente il disco; la musica che le accompagna apre però ad uno spettro differente e più ampio di sfumature fino forse a chiedersi, nella struggente e brevissima outro, quale sia il prezzo di ogni vittoria, quale il suo valore.

Torna così quella malinconia che, unica, la Storia può cantare. Per questo ho scritto che il disco “tramonta”. Nel grigiore caliginoso della guerra che la notte rende più cupo, illuminano due volte di più i dettagli luminosi dell’intimità: ed è qui che il gruppo si abbandona a passaggi veramente melodici dove al metallo degli strumenti cede il passo un andamento musicale più lento e soffuso. Non c’è posto per tonalità chiare in Day of Victory, ed è un tributo di fedeltà della band alla sua parte più dura ed aspra. Nella musica così come nelle immagini che nel digipak così come nel booklet -curate dall’ottimo Gaspare Frazzitta-, tendono a sfumare in una sfuggevole desaturazione dei colori, come a tradirne la natura concreta per trascolorare nelle atmosfere sospese e grigie del conflitto mondiale.

Torna a confermarsi la peculiare dualità del sound dei Dark Lunacy, capace negli anni di renderli personali sia nei lavori più intimisti e gotici dei primi anni, che negli ultimi, più schiettamente aperti alla storia e ad un esperimento vincente che vede ad oggi il felice riproponimento dei cori dell’Armata Rossa, della musica corale quindi, in accompagnamento alle ritmiche serrate del metal, quello “sporco” dei Dark Lunacy, diviso come è fra heavy e death con aperture sincere a raffinatezze sonore ma -e deve esser chiaro-, senza venir meno all’identità principale del gruppo.

Days of Victory è un album elegante che non si esaurisce nella necessità primordiale di un disco d’impatto. L’ispirazione e quindi la necessità espressiva non si sacrificano al mezzo, al genere musicale in se stesso tributando prevedibilmente ai suoi cliché: ben diversamente il genere è vissuto nella sua qualità di strumento, finalizzato all’ispirazione. Si tratta di un modo diverso, probabilmente più impegnativo, di rapportarsi ad un genere musicale confrontandosi con il proprio bisogno creativo. Del resto non è forse questo che distingue la buona musica dai prodotti musicali? Ecco, è qui che i Dark Lunacy hanno conquistato la mia piccola luce : davanti all’immediatezza di brani che in buona parte possono trascinare vittoriosamente sotto il palco, non viene comunque a prostrarsi, indegnamente la ‘personalità’ che anzi rimane, veterana, a tenere salde in mano le trame di un disco breve e liricamente compatto. Ascoltiamo chi ci chiama a raccolta:

“From heaven to earth, choose a better life/ I’m singing against all fears, I’m crying against this tainted world/ This tainted world..

I’m calling you”

 

Marco Migliorelli

 

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