Recensione: The Density Parameter

Di Tiziano Marasco - 10 Aprile 2018 - 9:00
The Density Parameter
Band: Mesarthim
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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88

“Aurelius? Ci è avanzato un po’ di quell’LSD che abbiam preso quando è uscito l’ultimo Ayreon? No? Almeno del fumo?”
“No niente!”
“Ok, allora tocca andare in giro.”
“Ma che è successo?”
“È uscito il nuovo dei Mesarthim!”

Miglior introduzione a questo gruppo non potrebbe esserci, se non quella di chi ci ha preceduto su queste pagine. Gli australiani Mesarthim sono stati una piccola rivoluzione nel panorama, quanto mai statico, dell’atmosferic black metal. Forti d’uno stuolo di demo e di un discreto debut, il duo si è imposto all’attenzione di pubblico e critica nel 2016 con “.- -… … . -. -.-. .”. Una prova che era piuttosto innovativa – in bella sostanza anche per il fatto che il genere non concede particolar spazio alle innovazioni – ma soprattutto era fottutamente ispirata. Una prova che introduceva alcuni elementi nuovi, in particolare nell’uso del tastierame, e li metteva al servizio di composizioni ispiratissime, in grado di dipingere scenari cosmici gelidi, neri, di una bellezza abbagliante quanto la cometa che il disco aveva in copertina.

Buttato fuori un altro paio di demo i nostri tornano oggi con “The Density Parameter”, terzo full-length su cui cadono non poche responsabilità: in primo luogo confermare quanto di buono avevamo sentito nell’ultimo album fatto e finito; in secondo luogo, quella di proiettare definitivamente i Mesarthim verso la vetta che li avrebbe resi uno dei punti di riferimento dell’atmoblack; in terzo luogo, che poi sarebbe la cosa fondamentale, farci fare altri viaggi cosmici ad ogni ascolto.

Ecco, la cosa affascinante è che, di queste tre aspettative, soltanto la prima è stata disattesa.

Perché “The Density Parameter” ha molto a che spartire col suo predecessore. Ma ne prende in certo modo le distanze. È un ancora disco studiato algebricamente, con trame lineari e ben definite, scarne e dirette, come nell’atmosferic black deve essere. Ma è anche un disco follemente colorato, proprio come la nebulosa in copertina. Ancora una volta, dunque, i nostri mostrano un particolare gusto nell’abbinare i colori dell’artwork alla musica che si va ad assaporate. Se il loro ultimo album era infatti un ammasso di atmosfere oscure in cui le tastiere gettavano sporadici e repentini abbagli di luce, questo nuovo lavoro porta le tastiere in cattedra, che dipingono ancora spazi cosmici, ma folli e coloratissimi, che brillano della calda malinconia di una supergigante rossa che si spegne.

Lo si capisce pian piano nei dieci minuti della opener “Ω”. Qui le tastiere partono in sordina, soffocate da una base di chitarra, basso e batteria monolitica, tipicamente black. Poi si accumulano col passare dei minuti, e le loro luminose melodie si fondono magnificamente al sound granitico degli strumenti “classici del black”. E continuano ad accumularsi, a disegnare traiettorie e geometrie molto precise, tipiche di certa elettronica “easy”, e producono atmosfere sognanti, che entrano subito in testa e non lasciano scampo. Davvero un viaggio “verso l’infinito ed oltre” (e senza bisogno del materiale citato in apertura di recensione).

Molto bello, sì, ma pressoché nulla in confronto a “Transparency”, che se non è uno dei pezzi più geniali degli ultimi dieci anni, è sicuramente uno dei più onirici. Un pezzo in cui le tastiere ci sono, fin da subito, onnipresenti, debordanti e pure parecchio ottantiane. La si può sentire anche dieci volte di seguito (passa i 10 di durata) e senza esserne stancati. Dopodiché parte l’esclamazione: “ma questi hanno montato le tastiere dei Dépêche Mode su una canzone di Burzum!” E per quanto sciocca e stupida paia questa frase, racchiude in sé tutta l’incredibile genialità di questo pezzo!

Tastieroni che tornano ancora in “Recombination”, il pezzo più dinamico e feroce del lotto. Una cavalcata di neanche cinque minuti attraverso gli spazi siderali a velocità pazzesche, con un groove incredibile. Sarebbe pure un ottimo singolo apripista, se i tali pratiche fossero in uso presso i gruppi di atmospheric black.

Chiude il lotto un’altra gemma, un altro pezzo magico, come “Fragmenting”. Ancora tastiere in cattedra come in “Transparency”, ma volte a creare atmosfere molto più malinconiche, come è giusto che sia per il pezzo di chiusura di un album mostruosamente compatto nei toni eppure sterminatamente vario nelle sensazioni.

“The Density Parameter” ha l’unico difetto di uscire dopo “.- -… … . -. -.-. .”, il che diminuisce l’effetto sorpresa che una bomba simile poteva produrre. Purtuttavia, questo nuovo disco sembra addirittura sopravanzare il suo predecessore. Pare più maturo e cosciente dei propri mezzi. Ma si avventura, e lo ripetiamo fino allo sfinimento, in un utilizzo delle tastiere molto più vasto, che dona profondità e colore ad ogni secondo di durata. I Daft punk del black metal (i Mesarthim sono due, sono anonimi e ormai fanno pure uso di elettronica easy listening al servizio di una proposta di qualità elevatissima) confezionano l’ennesimo disco pronto a sconvolgere tanto le orecchie quanto lo statico panorama dell’atmoblack. Disco dell’anno? Per ora se la gioca coi Summoning!

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