Recensione: The Divination Of Antiquity

Di Tiziano Marasco - 10 Ottobre 2014 - 0:00
The Divination of Antiquity
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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73

Vi ho mai detto di quella volta in cui mi son imbattuto nei Winterfylleth? Aprivano un concerto degli Enslaved e nel salire sul palco sembravano la band più improbabile che si potesse presentare ad un concerto estremo. Visini puliti, pochi tatuaggi o piercing, niente barbe o facepainting, sembravano molto più un gruppo di christian nu metal per bimbiminkia (batterista escluso, dato che sembrava un curioso miscuglio tra un lord vittoriano e Galder dei Dimmu Borgir).

Ma come diceva Confucio, “l’apparenza inganna” e questi quattro brittonici (Winterfylleth è il mese di Ottobre in gaelico) si erano rivelati ben più turpi dei loro norvegesi colleghi. Come riportai allora “fanno un post-sludge stile Agalloch di The Mantle, molto, molto, molto, moooooooooolto più incazzato, alternano growl e clean bivocali con grazia rara, levando un volume di fuoco impressionante, pari a sedici panda trve norvegian blec me(r)dal.” Alla fine non avrei saputo dire se si trattasse di una proposta originale o comunque valida (anche perché l’audio era vagamente scarso quella sera), ma di sicuro qualcosa tra me e la band era scattato. Una volta recuperato il lume della ragione – o tornato a casa che dir si voglia – andai a pescarmi uno dei loro dischi, quella perla rara di The Mercian Sphere. Effettivamente si trattava di un ottimo disco di black con varie ramificazioni goth, melancolico e gelido, sfumato e ricchissimo.  

Dopodiché venne The Threnody of Triumph, probabilmente il disco che i nostri stavano promuovendo in quella sera viennese. Un disco di stile e claasse inconfondibile, ma più violento e meno vario dei suoi predecessori. Una leggera flessione verso il basso in termini di apprezzamento, ma pur sempre un bel disco.

Ed ora tocca a The Divination of Antiquity. Il quarto album degli isolani sembra seguire l’irruvidimento del suo predecessore. Fin da subito le chitarre innalzano un muro sonoro gelido, con riff robusti e veloci. La opener e title track è già un ottimo esempio di quello che si sentirà in tutto il disco, guadagnando punti grazie ad un finale un po’ più lento e meditativo, che riesce a sposare magnificamente grazia e violenza. Stratosferico balzo in avanti nella successiva Whisper of elements, indiscutibilmente il miglior pezzo del lotto. Si tratta di una composizione violenta, ma pure risulta costruita magistralmente, con riff assassini che non lasciano scampo dal primo ascolto, coronati da un delicatissimo break melodico, mentre il finale è supportato da cori sognanti.  Pur non dicendo nulla di nuovo, ci troviamo davanti ad un pezzo così coinvolgente e passionale che, se tutto l’album fosse così, potrebbe ambire tranquillamente ad un 85. Sfortunatamente però i tratta di una vetta isolata. Sebbene tutto l’album sia più che dignitoso, non vi sono altri pezzi che conquistano senza remore e pigliano a schiaffi i nervi acustici con una simile grazia.

Vi sono comunque diverse composizioni che si segnalano, come ad esempio A Caveworm Heart: una cavalcata che parte acustica e continua dura ed ipnotica, richiamando per certi aspetti i Novembre di Classica, ma più black. The World ahead è una magnifica oasi di pace acustica, mentre Over Borderlands si ripropone sulle atmosfere di Whisper of Elements, ma manca un po’ di spontaneità e il miracolo non si ripete, anche se ci andiamo vicino. Forsaken in Stone e Pariah’s Path (contenuta come bonus nell’edizione speciale) concludono invece con toni imponenti e maestosi, di nuovo incoronati da fantastici cori in clean, un disco forse un po’ di mestiere, ma suonato con incredibile passione. Un disco non certo innovativo, ma pur sempre affascinante, un disco che dovrebbe servire di lezione ad una marea di gruppetini black inutili intenti a scopiazzare i Naglfar dall’altro lato del mare del nord.

The Divination of Antiquity risulta dunque essere un disco valido, carico di pathos e verve, cosa rara per il black  metal d’oggigiorno. Rimane il fatto che, forse per un calo di ispirazione, forse per una scelta stilistica dei britannici, questo disco non raggiunge le vette dei primi due album (escludendo ovviamente Whisper of the Elements). Il che è un peccato, perché se i Winterfylleth avessero continuato su quei livelli, non solo avrebbero fatto strada, ma avrebbero potuto fare il grande salto in avanti. Ciò detto, rimaniamo in possesso di una prova egregia, siccome della sicurezza di non farseli sfuggire in tournée.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

Sito ufficiale dei Winterfylleth

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