Recensione: The Divinity Of Purpose

Di Vittorio Cafiero - 17 Febbraio 2013 - 0:00
The Divinity Of Purpose
Band: Hatebreed
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2013
Nazione:
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75

Prima di prendere in esame The Divinity Of Purpose, sesto lavoro (escludendo l’album di cover For The Lions del 2009) della band del Connecticut, è opportuna una doverosa precisazione su etichette, sottogeneri e categorie che vengono utilizzati per classificare la musica: si tratta di sottoinsiemi utili solo in una pura ottica di database, di archivio musicale, di scaffale di vendita e mai (mai) dovrebbero essere utilizzate per esprimere giudizi a priori. Non solo, ovviamente, sulla possibile qualità intrinseca di un disco (“xxx non vale l’acquisto perché è grunge, yyy è noioso perché è doom“), ma, soprattutto, sulla soggettiva predisposizione che l’ascoltatore può avere nei suoi confronti (“mi tengo alla larga da abc perché non mi piace il death, lascio perdere yzx perché il power non lo sopporto“). Oltre a tutto ciò, la pericolosità nell’abusare delle etichette sta nei limiti che per forza di cose le caratterizzano: troppe sono le sfumature della musica, troppe le sfaccettature nella genesi di un determinato sound perché una band o un disco possa essere ‘chiuso’ nel recinto di una definizione assoluta.

Questo preambolo, solo per invitare il lettore a considerare con molta cautela l’inserimento degli Hatebreed nel sottogenere “metalcore”. In tale caso, infatti, i Nostri sono ben lontani da act quali Killswitch Engage, As I Lay Dying, Caliban, etc., veri rappresentanti del suddetto stile nel quale, per prassi, al giorno d’oggi anche Jamey Jasta e soci vengono inseriti. E la cosa stupisce, in quanto gli Hatebreed sono in tutto e per tutto una band hardcore/metal e non è una differenza formale, ma sostanziale: non sono cresciuti a forza swedish sound intervallato da break melodici, ma attraverso i peggiori pugni in faccia dell’hardcore newyorkese, quello di Cro-Mags, Agnostic Front e, soprattutto, Biohazard. Il tutto palesemente mixato con il riffing degli Slayer, tanto che molti, compreso chi scrive, li considerano i maggiori rappresentanti dello slayercore (e la sindrome della classificazione a tutti i costi colpisce ancora!).

The Divinity Of Purpose, nella fattispecie, vede un ritorno degli Hatebreed al loro stile più tradizionale, ben lontano dalle sperimentazioni e dalla ricerca melodica del precedente omonimo lavoro del 2009. Si tratta di un lavoro diretto, quadrato, il classico calcio nei denti, niente di più, niente di meno. Se quindi nella musica cercate soprattutto energia e impatto, questo è l’album che fa al caso vostro. Jasta e la sua gang si mostrano oggi più che mai una band certa dei suoi mezzi e del proprio DNA, che non ha bisogno di effetti speciali, di sperimentazioni o di trovate ad effetto. Nessuno si sognerebbe di chiedere a Motorhead o AC/DC di cambiare; ebbene, fatte le dovute proporzioni, il discorso per gli Hatebreed è assolutamente lo stesso. Due, massimo tre minuti a pezzo, velocità ed aggressività senza frontiere, dove l’unico momento di stacco è affidato a breakdown fatti come si deve, mai “telefonati” ed inseriti nel pezzo perché sta scritto nel manuale del metalcore. Put It To The Torch, primo singolo e video dell’album, è una vera e propria dichiarazione di intenti che, senza tanti giri di parole, aggredisce l’ascoltatore inesorabilmente, un blitz in piena regola che, senza scrupoli, non fa superstiti e lascia subito lo spazio ad Honor Never Dies: la sensazione è quella di un’esplosione di rabbia improvvisa a seguito di un prolungato stato di frustrazione. Come si è anticipato, ecco l’utilizzo del breakdown a regola d’arte, che trova spazio in modo assolutamente naturale e senza forzature. Già dal titolo del pezzo (come, del resto, dell’album) si evince che ancora una volta le liriche del mastermind Jamey Jasta sono un vero e proprio manifesto motivazionale: puro empowerment psicologico, il vero fil-rouge che unisce tutti i testi dello screamer di chiare origini irlandesi (vero nome James Shanahan). La “sacralità del proposito” è quella forza interiore che spinge ad andare avanti, a realizzare i propri obiettivi contro tutto e tutti, a non arrendersi mai, per nessuna ragione. Onore, cuore (“who’s got more heart than you?! No one!!” da Own Your World), lotta a pugni chiusi e a muso duro, fiducia in se stessi…queste sono le parole chiave delle liriche degli Hatebreed. L’unione di musica e testi, mai come in questo caso, sarà la chiave di lettura dell’album e lo strumento utile per goderne a pieno.

Si parlava di slayercore, poche righe sopra: all’ascoltatore basterà selezionare The Language per avere le idee assolutamente chiare di questa definizione. Un riff portante che non può non far pensare al quartetto di Reign In Blood, per un pezzo che si sviluppa velocemente in strofe di puro “NY/HC” interrotte solo da un isterico assolo di matrice punk e da breve rallentamenti per nulla stucchevoli. Proseguendo nell’ascolto, ci si rende conto che gli Hatebreed non erano così in forma dal periodo d’oro dell’accoppiata The Rise Of Brutality e Supremacy: altro esempio in questo senso è Before The Fight Ends You, caratterizzata da coinvolgenti – se amate il genere – gang vocals prese direttamente dalla strada. E’ 100% hardcore vecchia scuola Indivisible, mentre, ancora, Dead Man Breathing nel suo riff principale e ricorrente, non può non far pensare alle rasoiate degli Slayer. Colpiscono anche la title-track, con il suo flavour così vicino a certe atmosfere Rollins Band e la successiva Nothing Scars Me, in puro stile Hatebreed, che ci riporta indietro di una decina d’anni.

Ci si avvia alla fine, ma oramai quello che doveva essere detto, è stato detto (o meglio, urlato). Gli Hatebreed, dopo un attimo di pausa dalla routine, tornano a fare quello che sanno fare meglio, ossia aggredire frontalmente con un pugno di canzoni di un paio di minuti ciascuna, abbandonando qualsiasi velleità sperimentale. E’ assolutamente hardcore, dotato dell’aggressività del metal, che davvero non vuole inventare nulla di nuovo, ma non potrà non farvi l’effetto di un colpo assestato a dovere. Mezz’ora di arroganza da portare nuovamente sui palchi di mezzo mondo, mezz’ora di violenza fatta musica che unisce, rinforza, galvanizza.

All pit, no shit !!!

 

Vittorio “Vittorio” Cafiero

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Tracklist:

01.Put It To The Torch
02.Honor Never Dies
03.Own Your World  
04.The Language  
05.Before The Fight Ends You  
06.Indivisible
07.Dead Man Breathing  
08.The Divinity Of Purpose  
09.Nothing Scars Me
10.Bitter Truth  
11.Boundless (Time To Murder It)
12.Idolized And Vilified (Bonus Track)

Durata: 35 minuti ca.

Line Up:

Jamey Jasta – Vocals
Wayne Lozinak – Guitars
Frank “3-Gun” Novinec – Guitars
Chris Beattie – Bass
Matt Byrne – Drums

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