Recensione: The Door to Doom

Di Redazione - 18 Febbraio 2019 - 0:01
The Door to Doom
Band: Candlemass
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2019
Nazione:
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81

Per analizzare uno dei dischi più attesi del 2019, quel “The Door to Doom” che sancisce il ritorno dei leggendari Candlemass con un full length tutto nuovo, la redazione di Truemetal.it propone due disamine approfondite, per curare nel dettaglio ogni aspetto dell’album. Il voto complessivo è la media aritmetica data dalle valutazioni dei due recensori.


Mi sono avvicinato a “The Door to Doom”, ultimo parto della premiata ditta Candlemass, con una certa apprensione: da un lato il ritorno di Langquist, storica voce dell’ancora imbattuto (almeno a mio personalissimo avviso) esordio “Epicus Doomicus Metallicus”, si portava dietro una serie di domande, perplessità – soprattutto al netto dell’ottimo lavoro svolto nel recente passato da cavalli di razza come Levén e soprattutto Lowe – e aspettative che non sono nuove in questo tipo di, diciamo così, operazione amarcord; dall’altro, un artwork che rimanda così sfacciatamente al capolavoro anzidetto non poteva che suscitare reazioni istintive, tra la paura di una baracconata attira-fan destinata a crollare su se stessa, la speranza di una vera chiusura (ulteriore) del cerchio dopo 33 anni di prodotti sopra la media e il timore di un album ruffiano, volutamente legato al passato del gruppo e imprigionato in un’autoreferenzialità in cui è facile cadere quando si produce musica da, appunto, più di un trentennio. Sarebbe fin troppo facile chiudere la discussione col classico “La verità sta nel mezzo”, che nella sua salomonica furberia riuscirebbe a dar ragione a tutti senza scontentare nessuno. E invece no, perché “The Door to Doom” è esattamente ciò in cui speravo di imbattermi quando ho saputo che Edling e soci avrebbero donato un successore a “Psalms for the Dead”: un disco bellissimo.

L’apertura intimidatoria di “Splendor Demon Majesty” dovrebbe far capire fin da subito che i nostri non hanno perso il loro tocco: chitarre ruvide che tessono melodie minacciose, un basso che palpita incessante e una batteria enfatica ma tutt’altro che monotona. In cinque minuti e mezzo si passa dal doom classico, all’heavy, al semplice rock epico, guarnendo il tutto con la sontuosità del ritornello, in un’abile miscela di tutti gli elementi che hanno reso i Candlemass un gruppo cardine di un genere (che, sempre utile ricordarlo, loro stessi hanno contribuito a creare). E Langquist, mi domanderete voi? Beh, il signor Giovanni sfodera qui una prestazione di tutto rispetto, sfruttando il leggero arrochimento della voce (gli anni passano per tutti, in fondo) per puntare su un impatto un po’ più ruvido e insinuante. La vena malinconica si fa sentire nell’arpeggio iniziale della successiva “Under the Ocean”, subito dissipata dal ritorno in pompa magna di riff compatti e imponenti. La pesantezza del brano si acuisce durante il rallentamento che ospita l’assolo prima di stemperarsi in una breve un’incursione dilatata, quasi sognante. L’aura di minaccia torna a lambire la parte finale del brano, creando il ponte ideale per “Astorolus – The Great Octopus”, che molti di voi avranno già avuto modo di sviscerare grazie al video rilasciato dal gruppo. Il brano è lento, sinuoso, per certi versi sabbathiano ma al tempo stesso pesantemente Candlemass. L’incedere monolitico, incombente, inesorabile del pezzo si sposa abbastanza bene con l’assolo quasi sensuale – prendete il termine con le pinze, non me ne viene in mente uno più appropriato – del gigante Tony Iommi, ospite d’eccezione, creando melodie sulfuree senza rinunciare a venature più vicine ad hard rock e blues. Per la verità l’assolo in sè non é proprio indimenticabile, è vero, ma per stavolta direi che lo possiamo perdonare. L’atmosfera nera del pezzo si alleggerisce solo nel finale, concluso da un arpeggio sì lento ma dal tono equivoco, difficilmente districabile, a metà tra l’inquietudine e la calma. Si passa così alla lenta e malinconica “Bridge of the Blind”, sorta di oscura ballata in cui i Candlemass spezzano la pesantezza finora incontrata con passaggi più morbidi; qui Langquist si avvicina ai toni sofferenti che avevano caratterizzato l’esordio del gruppo, ma si concentra più su una certa mesta solennità che esplode poi nel ritornello più enfatico. Un riff d’altri tempi, scandito e graffiante, apre “Death’s Wheel”, altro pezzo permeato dalla tipica aura sinistra dei nostri ma dotato di un andamento sinuoso e ritmato, a tratti perfino blueseggiante, che ne spezza la minacciosità. Ci pensa il rallentamento che ospita l’assolo a rimettere le carte in regola, oscurando il brano con tetri panneggi velati di solennità prima del finale, che dopo un ultimo colpo di coda torna alla solennità cedendo il passo a “Black Trinity”. Qui, l’iniziale gioco di chitarra apre un pezzo che potrei definire come il fratello oscuro della traccia precedente: un andamento sinuoso e scandito ma che abbandona i toni più leggeri per indulgere, invece, in una pesantezza più incombente e nera. L’incursione strumentale dal retrogusto tribale vagamente allucinatorio apre al finale quadrato e insistente, che sfuma infine nel rintocco delle campane che, sorretto dal sibilo della pioggia e di tuoni vicini, apre “House of Doom”, già presente sull’omonimo EP dell’anno scorso quando ancora c’era Mats Levén dietro il microfono. Trattandosi della medesima canzone, che probabilmente molti di voi conoscono già, le differenze sono date dai diversi approcci vocali. La voce di Langquist, più sofferta e meno asciutta di quella del suo predecessore, dona al pezzo una vena di afflizione assente nell’altra versione, più potente, giocandosela con toni e atmosfere più disperate. Per il resto ci troviamo dinnanzi al solito pezzo in pieno stile Candlemass: una colata di riff opprimenti e sinistri ma, al tempo stesso, imponenti e dall’afflato solenne. È a questo punto, proprio in chiusura, che la voce suadente e vissuta di Johan arriva a piazzare il colpo gobbo; la martellata di “The Omega Circle” parte quasi soave, con un arpeggio tranquillo che solo in un secondo momento cede il posto a riff limacciosi e stridenti, per poi deflagrare nel ritornello epico e maestoso. L’intermezzo centrale, pacato e vagamente insinuante, naufraga di nuovo nella fossa bituminosa dei riff già incontrati prima di una nuova esplosione trionfale: l’assolo arriva quasi per caso, all’improvviso, spianando la strada alla chiusura nuovamente intimidatoria. Non sarà “A Sorcerer’s Pledge” ma avercene di tracce conclusive così.

Sarò onesto: “The Door to Doom” non è esente da difetti (oddio, difetti: diciamo peccatucci e chiudiamola lì), ma anche prescindendo dal fattore nostalgia e volendo cercare il pelo nell’uovo non riesco proprio a non considerarlo il perfetto coronamento di una carriera notevole, nonché un lavoro che tutti gli amanti del doom ameranno.
Una chiusura memorabile, signori: nient’altro da dire.

Voto: 83/100

Stefano Usardi


 

The Door to Doom”… È con un album dal titolo così esplicito che gli indiscussi Masters of Doom, i leggendari Candlemass, fanno il loro ritorno in pista, uno degli eventi più attesi del 2019. L’impatto di questo disco nella scena è paragonabile alla rottura di antichi sigilli magici, che vanno a liberare un’entità che aveva dato forti segnali di risveglio, pronta a inglobare la Terra in un’aura oscura, plumbea, nera come la pece, la cui unica sensazione respirabile e palpabile è la desolazione.
Da dove iniziare a parlare di un disco di tale importanza e caratura? Beh, dovremmo partire dal lontano 2012, quando la band capitanata dal geniale bassista Leif Edling pubblicò “Psalm of the Dead”, annunciato come l’ultimo full length dei Candlemass. Poco dopo la sua pubblicazione, Robert Lowe, il cantante dell’epoca, venne allontanato e al suo posto entrò in formazione il fenomenale Mats Levén. Accolto dai fan in maniera “freddina”, il singer svedese, grazie a delle prestazioni live da urlo, che trasformarono i Candlemass in una macchina perfetta, riuscì nel difficile compito di conquistare buona parte dei fan della band.
L’ingresso di Levén è stato importantissimo e, per certi versi, ha fatto rinascere la formazione di Stoccolma che, carica di nuova linfa vitale, in occasione del trentesimo anniversario di carriera, ha pubblicato uno speciale EP, lo splendido “Death Thy Lover”, che ha stimolato l’appetito riguardo a un possibile nuovo album. Il passaggio successivo è stato l’altrettanto ottimo EP “House of Doom”, che ha anticipato di qualche mese l’uscita del platter che ci troviamo a curare in queste righe, diventandone un succulento antipasto.

Poco dopo l’uscita di “House of Doom” i Candlemass, con Levén alla voce, entrarono così in studio di registrazione per le sessioni di “The Door to Doom”, componendo le musiche e affidando al riccioluto cantante le linee vocali. Fu proprio durante le fasi di registrazione che avvenne l’ennesimo colpo di scena: Levén, il cantante che aveva risollevato le sorti della band, venne sbattuto fuori dai Candlemass e, al suo posto, richiamato il seminale Johan Längquist, la voce del leggendario “Epicus Doomicus Metallicus”. Con questo ennesimo cambio al microfono, posizione non certo facile in casa Candlemass, i Nostri presero parte a vari festival estivi, presentando luci e ombre (come vi avevamo raccontato in un nostro report che trovate cliccando qui), sollevando qualche piccola perplessità sulla scelta effettuata. Ma se per le date live poteva esserci la scusante del tempo di cui necessitava la nuova line-up per trovare la giusta alchimia, la prova su disco risultava una sorta di esame da promossi o bocciati.

E quindi? Com’è “The Door to Doom”, vi starete chiedendo? Beh, la risposta è una sola: cento per cento Candlemass. La penna di Leif Edling non tradisce le aspettative, appare ispiratissima, mettendo a segno un disco che prosegue il percorso iniziato con gli ultimi due EP, pubblicati con Levén alla voce. Ci troviamo quindi al cospetto di un disco oscuro, possente e melodico allo stesso tempo, in cui la band svedese ci regala otto tracce di stampo heavy-doom, in cui fanno capolino influenze settantiane e alcuni passaggi che riportano alla mente i Black Sabbath degli anni Ottanta, quelli più epici, per intenderci. E non a caso citiamo la band inglese, dato che il leggendario mastermind della formazione di Birmingham, Tony Iommi, è l’ospite d’onore in uno degli assoluti highlight dell’album, quella ‘Astorolus – The Great Octopus’ che già abbiamo imparato a conoscere, in quanto uno dei singoli che hanno anticipato l’uscita di “The Door to Doom”.
Il disco, come da scuola Candlemass, poggia su un guitarwork curato e ricercato, fatto di riff pesanti, grossi come macigni e neri come la pece, ben coadiuvati da una sezione ritmica che ha fatto la storia del genere. Oltre alla già citata ‘Astorolus – The Great Octopus’, spiccano così la splendida ‘The Omega Circle’, ‘Under the Ocean’ e la terremotante ‘House of Doom’, canzoni che evidenziano alla massima potenza quanto fin qui descritto, senza dimenticare la splendida ballad ‘Bridge of the Blind’, che segue quanto iniziato con ‘Fortuneteller’ nel precedente EP “House of Doom”, risultandone però una sorta di evoluzione, più ispirata e accattivante.

Ma se dal punto di vista musicale c’erano pochi dubbi sulla qualità del nuovo album, soprattutto alla luce dei due precedenti EP, l’aspetto su cui tutti i riflettori erano puntati non poteva che essere la prova vocale del figliol prodigo Johan Längquist. Essendo uno dei punti più importanti della nostra analisi, qui dobbiamo soffermarci alcune righe, non solo per narrarne l’impatto nell’economia dell’album, ma anche per provare a porre delle basi di pensiero in ottica futura. Va detto subito che, come scritto poco sopra, le linee vocali sono state tracciate da Mats Levén. Non a caso era stato proprio il riccioluto singer a iniziare le registrazioni in studio, e basta inserire il disco nel lettore e premere “play” per rendersene conto. I passaggi in voce piena, gli alleggerimenti, le parti “graffiate” sono cento per cento made by Levén. A Längquist è toccato quindi reinterpretare delle linee vocali di un altro cantante. Va subito detto che il registro dei due si muove più o meno sugli stessi binari, quindi per Längquist, che si presenta in uno stato di forma eccezionale, non deve essere stato difficile riproporre le linee di Levén. La differenza sta invece nella capacità espressiva, di “sentire” e rendere “vive” le canzoni attraverso la propria voce. Qui la differenza c’è, e la bilancia pende dalla parte di Levén. Basta ascoltare ‘House of Doom’ per rendersene conto, canzone presente sia nella versione Längquist, in “The Door to Doom”, che nella versione Levén, nell’omonimo EP. Si può notare così come Längquist riesca a dare il massimo di sé nelle parti in voce piena, dove può sfoggiare tutta la potenza della propria ugola, mentre risulta meno convincente nelle parti in cui deve alleggerire, non riuscendo a garantire la stessa resa espressiva, aspetto che viene accentuato in ‘Under the Ocean’.

Partendo da questa considerazione, durante l’ascolto ci troviamo così ad avere dei momenti “da urlo”, in cui vengono toccati degli apici qualitativi elevatissimi, alternati ad alcuni capitoli che, pur essendo estremamente ispirati, curati e ben riusciti, risultano meno “vivi”, non riuscendo a infondere lo stesso coinvolgimento. Si sa, interpretare un disco con delle linee vocali create da qualcun altro non è mai facile, e questo arduo compito questa volta è toccato a Johan Längquist. Il cantante ha sicuramente svolto un ottimo lavoro, perdendo però qua e là quel pizzico di espressività che avrebbe potuto tramutare “The Door to Doom” in uno dei punti più elevati della discografia dei Candlemass. L’album è comunque di livello eccelso e spazza via buona parte della concorrenza. Per capire però quale sia la reale personalità dell’attuale line-up, per i motivi scritti in sede di analisi, dovremo attendere il prossimo lavoro. Al momento dobbiamo “accontentarci” di “The Door to Doom”, un disco che saprà regalare molte soddisfazioni agli appassionati delle sonorità più rallentate e oscure. La leggenda è tornata, lunga vita ai Candlemass.

Voto: 80/100

Marco Donè


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