Recensione: The Dying Beauty

Di Daniele D'Adamo - 4 Gennaio 2016 - 15:53
The Dying Beauty
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Come un’onda di marea inarrestabile, la nuova stagione del black metal sta sommergendo tutte le terre emerse, nessuna esclusa, per ammantare di nuove idee, sentimenti, sensazioni, un genere che, soltanto una decade fa, sembrava destinato a esaurirsi; intrappolato nei suoi stessi dettami stilistici.

Invece, come l’Araba Fenice, la felice intuizione di alcuni musicisti francesi, che non si menzionano per non far difetto chi si dovesse dimenticare, ha apportato nuova linfa alla matrice primigenia progettata, nei suoi arcaici albori, nei fenomenali anni ’80. Una linfa alimentata più che da emozioni negative, dagli infiniti richiami che la Terra Arborea offre ai suoi abitanti.

Uomini in primis.

E così, sulla spinta delle morbide, dolci ed eteree melodie del post-black, giunge alle orecchie degli appassionati una moltitudine di proposte, destinata a rivitalizzare definitivamente detta foggia ancestrale. Come quella chiamata Nocturnal Degrade, frutto del lavoro di Cold, tuttofare – voce, chitarra, basso, programmazione batteria, tastiere – proveniente da Roma. Questo fatto non deve sorprendere, poiché l’esperienza dimostra che il black metal è un genere che nasce dai bugigattoli più lontani e dimenticati dell’anima. Ove, per ragioni fisiche, non arrivano le perturbazioni atmosferiche terrestri.

Come la mostra la splendida opener “Consequence”, fuori può anche esserci il più caldo dei soli che, dentro, più albergare il tormento della disperazione, del dolore, della sofferenza. Cold, seppur fedele ai cliché dell’eerie emotional music, non manca di sottolineare gli istanti ove esplode il male misantropico con furibonde sessioni dominate dalla furia dei blast-beats. Salvo placarsi, immediatamente e senza decelerazioni precognitive, a contemplare le magie della Natura incontaminata. Procurandosi da sé le visioni tinte dall’acquarello di una meraviglia semi-silenziosa.

Su questo tenore umorale si assesta anche “In December”, straziante invocazione alla malinconia invernale. Ove, in accordo con i noti interiori, il freddo dell’etere è pari al freddo del cuore. Solitudine, solitudine e ancora solitudine, è il leit-motiv emozionale di un album, “The Dying Beauty”, il terzo in carriera, che non lascia spazio alla speranza, alla vista di un futuro che non sia quello di una mesta consapevolezza dell’umana segregazione.

Sono tuttavia i segmenti più meditati, meno aggressivi, fra i quali la strumentale “Of My Soul And The Macrocosm”, ove la struggente chitarra di Cold unitamente alle sue tastiere scavano all’interno del corpo umano, raggiungendo stati di dolore assoluto. Non può esserci né gioia né felicità, nel mondo di “The Dying Beauty”: tutto appare in inesorabile decadenza. Messo lì, ad aspettare il disfacimento e poi il dissolvimento nel vuoto cosmico.

Cold, il suo tragico scream e “The Dying Beauty” probabilmente non rimarranno incisi nella Storia del metal per via di una linearità stilistica che non azzarda scelte rivoluzioniste. Però, guai – perlomeno ai fan del genere – a lasciarsi scappare questa piccola perla di toccante sentimentalismo. Volto al negativo, naturalmente.    

Daniele D’Adamo

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