Recensione: The Eldritch Dark

Di Giuseppe Casafina - 7 Agosto 2015 - 8:13
The Eldritch Dark
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2013
Nazione:
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84

I Blood Ceremony sono una di quella realtà finora colpevolmente assenti sulle pagine di Truemetal.it, fatta eccezione per il loro disco di debutto, un’entità talmente refrattaria al passare del tempo che fa sorgere in noi un dubbio spontaneo, ovvero se sia giusto vivere immersi a pieno regime nel presente….la musica “antica” portava con sé un sapore meraviglioso da cui la modernità potrebbe solo imparare, pertanto tali dubbi, più che traumatizzare le nostre esistenze e gettarle nel panico, le costringono ad una cospicua analisi dell’io.

Chi scrive è da sempre grande appassionato dell’attuale scena dedita al doom/psych/folk d’annata, ma ha sempre pensato che i Blood Ceremony spicchino comunque su tutto il resto, grazie ad innumerevoli particolarità che verranno via via analizzate. 
Andando con ordine i Nostri vengono dal Canada guidati dalla voce della mefistofelica Alia O’Brien, strega ammaliatrice affascinata dal passato nonché intonatrice di riti occulti ormai nascosti dal passare di centinaia e migliaia di lustri: sotto la vivida effige di tale luciferina entità femminile, l’ensemble forgia con orgoglio un suono vecchia scuola che si nutre di Black Sabbath e Jethro Tull, il tutto per accompagnare i nostri sensi nelle umide foreste ed anfratti racchiusi dal procedere dell’esistenza.

“The Eldritch Dark” se analizzato e presentato oggi nel 2015 risulterebbe fuori tempo massimo ancor più della musica contenuta al suo interno, dato che il lavoro risale a due anni orsono, ma come già accennato in apertura il solo lasciarlo non degno di menzione per queste pagine sarebbe stato, per il sottoscritto (e non solo, credo), un grande attentato all’immensa qualità musicale contenuta tra i suoi solchi quasi primitivi.

Ho visto questo disco descritto come non esattamente all’altezza dei precedenti, ma tutt’oggi continuo a chiedermi il perché di ciò, dato che “The Eldritch Dark” rappresenta la sublimazione del suono degli stregoni canadesi: va oltre le coordinate settantiane dei predecessori e le evolve in un contesto sempre meravigliosamente polveroso, ma nutrendolo con arrangiamenti più curati e contesti sonori più ricercati.

Il nostro viaggio nei meandri delle foreste dimenticate comincia nei pressi di “Witchwood”, opening track sprizzante suono settantiano da ogni poro, che dopo una pausa iniziale intonata dai sussulti di un organo esplode per dar spazio al canto vagamente sabbathiano (pura scuola Ozzy) di Alia la Strega, per poi evolversi in stop n’go e derivazioni folk/prog degne dei migliori Jethro Tull e del miglior hard rock d’annata, quel suono dissacrante che faceva dei pantaloni a zampa di elefante la sua ragione di esistere nei contesti sociali della sua epoca.
Il pezzo prosegue, continua a vivere con il bellissimo alternarsi di assoli di chitarra, organo e flauti (questi ultimi suonati dalla divina Alia), per poi chiudersi in un campionamento di qualche film retrò su streghe e dannazioni annesse.

Il viaggio elettrico riprende accompagnato da un dolce intreccio di flauto e basso con “Goodbye Gemini”, pezzo trainante del disco da cui è stato tratto persino un video (probabilmente il primo dei Nostri), dando vita al pezzo più diretto ed accessibile dell’intero disco, cosa non certo disprezzabile data la Classe con la C maiuscola sprigionata dai Cerimoniali canadesi, tra refrain melodici che puzzano di zolfo e melodie di flauto suggerite dal Maligno in persona.
A tratti è come se il corpo della Strega fosse solo un tramite tra il mondo degli spiriti ed il nostro Mondo, dando la costante sensazione che su ogni traccia di questo disco, artwork compreso, abbia pesantemente influito la sinistra mano di Lucifero.

Come terza tappa, signore e signori, posiamo sensi ed orecchi al cospetto di “Lord Summerisle”, il classico capolavoro nel Capolavoro.
Introdotti dal suono risonante di un organo riverberato, squisite penate di chitarra acustica portano con sé la magia di un flauto intento a scolpire con prepotenza la sua presenza tra l’estasi umida del brano con una melodia mistica e sognante. 
Stavolta è il cantato (ed il songwriting) del bassista Lucas Gadke a guidare le danze, come sempre accompagnato dalla voce pastosa e divina della Strega, per dare corpo alle vicende mai troppo dimenticate di quel monolite del cinema occulto che fu “The Wicker Man”, capolavoro di cui sicuramente conoscerete l’esistenza.

La recensione potrebbe anche concludersi qui, dopo il susseguirsi di tre brani di siffatta fattura ed il cui unico esito porterebbe ad uno scontato “fatelo vostro”, ma ovviamente l’estasi non finisce qui.
Ci sarebbero ancora tante cose da dire ma che mi limiterò solo ad accennarvi, come l’ispirato Sabba in chiave folk-rock di “The Ballad of the Weird Sisters” dove i Cerimoniali danno prova di essere i migliori sul campo anche puntando sulle storie più assurde (sempre con un tocco luciferino al tutto), il pulsante hard dinamico della title-track che tra le sue dissonanze ed i momenti pentatonici rende ulteriormente giustizia al songwriting, sempre vario ed ispirato, dell’ensemble, sfoggiando con il suo avanzare anche ottimi cambi di tempo ed atmosfere.
Il tutto nel nome del culto pagano più sfegatato, si intende ….

“Drawing Down the Moon” si nutre di folklore di antica fattura tra ampie dosi di flauto ed organo, che qui domina onnipresente lungo tutto il brano ora esibendosi in riuscite parti ritmiche, ora in assoli di psichedelica natura, sotto un cantato leggermente più “dal sapore pop” (occhio alle virgolette), prima dell’esplosione hard-blues posta alla metà del brano.

Avvicinandoci alla fine del viaggio, il breve strumentale “Faunus”, della durata di appena due minuti, ci introduce al capitolo finale di “The Magician”, epilogo in grado di raccogliere tutte le caratteristiche salienti dei brani a lui precedenti per missarli in una mini-suite di 8 minuti, sfumando nel rallentato finale proto-Doom che chiude questo Capolavoro.

Dopo tutto questo descrivere enfatico, di sicuro dedurrete che se non l’avete ancora fatto, forse sarebbe il caso di dare una chance a questo album anche nel caso foste il più truce grindster sulla faccia della Terra, uno tutto di un pezzo che ha fatto di “Scum” (Napalm Death) una religione e stile di vita.

I Blood Ceremony sono qui per cantarvi dell’Ignoto che Fu, e logicamente per farlo si servono dei suoni che furono, tutt’oggi adorati e mai dimenticati: si servono di ciò non nascondendo le loro palesi influenze ma sublimandole in uno stile che si nutre sia di esse che della sferzante personalità dei singoli menestrelli che animano questa rediviva confraternita del male (ecco le particolarità di cui accennavo ad inizio recensione), risultando unici ed inimitabili anche al cospetto di tante realtà attuali sempre valide e rispettabilissime.

Che le oscure Divinità del Passato possano tenere sempre in buona considerazione questi loro passionali ed ispirati adepti, affinché il fuoco ardente dei loro Sabba cerimoniali possa sempre risplendere oltre l’oscurità con ardente ed infinita luce.

Giuseppe “Maelstrom” Casafina

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