Recensione: The Empirical Shape Of Pain

Di Eric Nicodemo - 9 Giugno 2014 - 7:00
The Empirical Shape Of Pain
Band: MainPain
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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75

 

Si è spesso parlato di una presunta NWOIHM, talvolta con cognizione di causa, altre volte a sproposito. Se l’esistenza di questo movimento può essere contestata o meno, di certo sappiamo una cosa: il metal italiano più classico e intransigente alle mode è ancora vivo e vegeto e non vuole cedere alle ingiurie del tempo.

E i MainPain sembrano essere forgiati in questo metallo, fatto di coerenza e volontà ferrea. Non a caso, il combo del dolore non si nasconde dietro suoni e produzioni odierne patinate o roboanti, ed è pronto a riporre incondizionata fiducia nella tradizione per la seconda volta, con “The Empirical Shape Of Pain” (seguito del debut album “Food For Toughts”, 2007).

La dimostrazione di quanto detto non si fa attendere: i MainPain non perdono tempo e lanciano un attacco sguinzagliando riff dal sapore maideniano e un’inflessione tutta british metal primi anni ’80 (Cloven Hoof, Bitches Sin, Blade Runner). Tuttavia, non è da tralasciare lo sforzo profuso dai Nostri nel rielaborare le proprie influenze, che vengono stemperate conferendo al songwriting delle canzoni una certa varietà, tra duelli chitarristici e riflessivi midtempos diretti dal duo Dave Valli e Paolo Raffaello.

Sì, perchè i Main non solo hanno fatto proprie le connotazioni tipiche della NWOBHM ma hanno assimilato anche una sua caratteristica distintiva: una dinamicità nell’evoluzione del pattern, che viene movimentato alternando frenetiche scorribande con pennellate acustiche e tempi medi, come si evice dal terzetto composto da “Blood Arena”, “Kiss Of Death” e dalla sfaccettata “Cleopatra”.

Blood Arena” si snoda in un intarsio chitarristico mentre “Kiss Of Death” sdoppia la linea melodica, riuscendo ad unire ben tre set differenti: il consueto impeto del refrain portante, un inframezzo più ragionato e d’atmosfera ed, infine, una progressione chitarristica, dove il vibrato può esprimersi al meglio. Questo non esclude la presenza di riff collaudati, un elemento che traspare fin dall’opener “The Healer” (introdotta da “The Arrival”, un intro a base di tastiere).

Più di qualche defenders sarà propenso, però, ad accettare la verace spontaneità racchiusa nei backings da stadio di questo first shot. Un’ipotesi che potrebbe trovare reale fondamento in sede live, dove i Nostri potranno dimostrare tutto il loro valore. Sensazione ulteriormente avvalorata dall’incalzante “On The Run”: se l’apertura è piuttosto canonica, ci pensa il drumming incisivo di GianMarco Bonenti e un ritornello user friendly a risollevare il nostro morale, spronato da vecchi ricordi che affiorano mentre cantiamo le strofe del coro.

Tra epigoni e ottime conferme, spicca “The Spiral”, che riesce a mediare di nuovo ritmiche arrembanti con un ritornello epicheggiante. Degno di nota il vorticoso guitarwork, ispirato e ricco di brio, che ci avvolge in una spirale di dolore. La volontà di rispettare un sound classico è palese ma è altrettanto evidente anche la voglia di creare composizioni ad ampio respiro, un’impressione che trova conferma nella precedente “Cleopatra” e in “Wake Up The Sleeping Giant”.

Cleopatra” scatena il basso galoppante di Daniele Tamborini mentre Ronnie Borgese, indossate le vesti di bieco anfitrione, recita il cadenzato repeat con voce stentorea. Il viaggio prosegue mentre le asce sfoggiano citazioni ed inserti cangevoli, tante tessere che vanno a comporre un mosaico fatto da accelerazioni graffianti, assoli orientaleggianti e scorci arpeggiati.

L’articolata “Wake Up The Sleeping Giant” accentua il legame tra liriche e songwriting: il risveglio del gigante è anticipato da un languido arpeggio che lascia un alone di tristezza, dove alleggiano i vibrati drammatici. L’atmosfera di apparente silenzio si spezza e il gigante silente si solleva mosso dalle chitarre convulse e dalla voce profonda e teatrale, al contempo, del singer Ronnie Borgese (che ricorda il buon vecchio Blaze Bayley nei passaggi più cupi).

Come per “Cleopatra”, i MainPain giocano la carta dell’up tempo, incidendo un ritornello lento e magniloquente, tributo all’immortale Dio. In questo teatro musicale si sollevano le grida della sei corde, venate da una tensione emotiva, un whammy bar che è straziante e penetrante quanto lo sguardo di un titano. Ed è proprio il whammy bar la chiave di volta del brano, infondendo grande intensità al post-chorus, per consegnarci una prova d’eccezione. Irrinunciabile il playguitar solista, l’ideale palcoscenico dove somministrare una buona dose di tecnica e cuore.

Insomma, possiamo tranquillamente eleggere “Cleopatra” e “Wake Up The Sleeping Giant” (assieme a “The Spiral” e “On The Run”) come i momenti più significativi del platter, a conferma di un combo in crescita, capace di picchiare duro ma anche di destreggiarsi abilmente con toni più meditati ed evocativi.

Prima dell’imminente fine, “Reflex Of Events” risulta poco più di routine per i Nostri, che sanno comunque infondere carica e tiro grazie a una sei corde mai troppo sedimentata sullo stesso motivo. La conclusione sfuma tra le maliconiche note di “The Empirical Shape Of Pain”, melodia d’epilogo trasportata alla deriva da un solitario arpeggio.

Ad ascolto concluso, sarebbe del tutto inutile rielencare minuziosamente difetti e pregi perchè il lavoro dei Nostri si presenta per quello che è, senza maschere o false pretese: una prova sincera e compatta, probabilmente non innovativa, ma da cui traspare carattere e una genuina passione per le nostre radici musicali, spesso ingiustamente lasciate nel dimenticatoio per favorire i generi tuttora in voga.

Ed è forse questo il compito dei MainPain ovvero ricordarci ciò che da tempo avevamo trascurato: un heavy metal spontaneo, privo di compromessi, partendo dal quale molti di noi hanno iniziato ad appassionarsi a questa musica, un genere ora lasciato in soffitta come un vecchio giubbotto sgualcito che fuori moda non vogliamo più indossare. Con quest’immagine in mente, sarà più facile apprezzare questo disco, cogliendone appieno le potenzialità: sarà come indossare quel vecchio chiodo, consapevoli che non farà la figura di un tempo ma risveglierà, anche per pochi attimi, la fiamma del defender che si cela in ognuno di noi.

Eric Nicodemo

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