Recensione: The End of Faith

Di Daniele D'Adamo - 12 Novembre 2017 - 12:21
The End of Faith
Band: Bloodhunter
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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78

C’è stato un periodo in cui per le donne c’era poco spazio, in una band di heavy metal, soprattutto come vocalist. Erano gli anni della NWHBHM. Poi, nella decade fra il 1990 e 2000, è esploso il fenomeno del gothic ove, al contrario, erano gli uomini a esser rari, al microfono. E ora, una nuova tendenza, nuovi territori di conquista, per le female vocals: il metal estremo. Death, nella fattispecie. 

Come accade per i Bloodhunter, che annoverano fra le proprie fila Diva Satanica che, come suggerisce il nome, non fa sconti a nessuno, in termini di aggressività e brutalità.

Il death metal della formazione iberica, difatti, è duro, violento, veloce; molto lontano, per dare un esempio, da quello degli Arch Enemy. Merito del mastermind nonché fondatore Fenris, talentuoso chitarrista, sulle cui spalle si regge l’intera struttura portante del sound del combo di A Coruña. Fenris è un axe-man a tutto tondo, capace di erigere monumentali muri di suono dalla potenza enorme, massicci, granitici. Ma, anche, in grado di abbellire la musica con preziosi ricami armonici, con soli e quant’altro di necessario per rendere gradevole una proposta altrimenti troppo indigesta (‘Death & Rebirth’). Anche se, a onor del vero, sono parecchi gli intarsi dissonanti che contribuiscono a rendere alcune song dure e difficili da assimilare (‘Eyes Wide Open’).

Sì, poiché i Bloodhunter sono spesso accomunati al death metal melodico ma di esso hanno ben poco, nelle loro corde. Soprattutto a livello di songwriting, ove l’unico brano per così dire accattivante è ‘Possessed by Myself’, ricco di spunti tradizionali che pescano direttamente nell’heavy. Per il resto c’è tanta rudezza, richiamata anche dalle numerose ondate di furibondi blast-beats (‘The End of Faith’).

Assolutamente particolare, poi, l’interpretazione di Diva Satanica, che alterna – come se ci fossero due vocalist – un growling roco e rabbioso a un semi-screaming acido e acre. Una vera guerriera del canto, la cui perfetta interconnessione con la musica è direttamente proporzionale alla sua avvenenza. Davvero molto brava.

Con tali caratteristiche di base, quindi, i Bloodhunter riescono a formare uno stile se non originalissimo, sicuramente personale e di facile riconoscibilità. Uno stile adulto, che non necessita di ulteriori ritocchi in quanto formato nella sua interezza. Ottima peraltro l’esecuzione, da parte di musicisti professionisti sino al midollo, e poi tutto il processo realizzativo, che conduce a un suono pulito, chiaro, limpido. 

Forse si sarebbe potuto rendere meno arcigno il sound con qualche divagazione più melodica di Fenris ma con ciò si sarebbe snaturato un disco che colpisce dritto allo stomaco.

Insomma, chi dovesse aspettarsi un lavoro eminentemente melodico resterebbe profondamente deluso: i Bloodhunter spaccano, assaltano l’ascoltatore, fanno male spesso e volentieri, non fanno prigionieri.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

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