Recensione: The Fourth Dimension

Di Matteo Bovio - 25 Luglio 2002 - 0:00
The Fourth Dimension
Band: Hypocrisy
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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80

La classe degli Hypocrisy è dimostrata al di là di ogni possibile dubbio dall’incredibile eterogeneità di soluzioni sonore presenti in ogni loro lavoro accompagnata da una qualità sempre al di sopra della media. Nonostante il suo continuo rinnovarsi questo trio svedese ha sempre sfornato album spettacolari, che vengono apprezzati bene o male in tutta la scena metal, a prescindere dai gusti particolari. Mi ronzano ancora nelle orecchie le note del fantastico Catch 22 (sinora la loro ultima fatica) quando mi accingo a scrivere di questa perla del passato, intitolata The Fourth Dimension: un album che usciva 8 anni fa e che fa sempre piacere piazzare nel proprio lettore Cd per coglierne la bellezza.

L’iniziale “Apocalypse” è tanto spiazzante quanto spettacolare: si tratta di un brano relativamente lungo, orientato su toni molto doomish e che fa di un riffing molto semplice e di un arrangiamento tastieristico elementare il proprio punto forza. Il suono lento è una caratteristica di più brani all’interno di questo lavoro, e come ben sappiamo non è facile non stancare l’ascoltatore con soluzioni simili: tuttavia anche in brani monolitici come “Slaughtered” è pauroso constatare il genio nascosto in scelte elementari ed efficaci.

Impossibile non sentire l’impronta fortemente svedese che il trio impone ad alcuni brani; e come potrebbe essere altrimenti? Pezzi come “Orgy In Blood” non possono che riportare la mente ai sacri nomi di inizio anni ’90, ma anche in questo caso, inutile ricordarlo, gli Hypocrisy ci mettono del loro e si fanno riconoscere. La cura eccellente dedicata ad ogni singolo arrangiamento fa sì che ogni brano non sia un anonimo Death metal, ma sia facilmente memorizzabile e, cosa più importante di tutte, regali emozioni. E la loro musica è come al solito ricca di emozioni; in The Fourth Dimension prevale una costante sensazione di opprimente claustrofobia, merito anche dei già citati brani dalle tinte doom. Un riffing sottilmente malvagio completa definitivamente l’opera.

Questo è un album tra i più difficili scritti dalla band dell’immenso Peter Tagtgren, quindi vi invito caldamente ad un attento ascolto prima di esprimere qualsivoglia giudizio. Come in tutti i lavori degli Hypocrisy, sono i dettagli a fare la differenza, e per scoprirli non sempre bastano pochi ascolti. Tra l’altro da un paio d’anni dovrebbe girare la ristampa contenente anche due bonus tracks prese da Maximum Abduction, e a prezzo ridotto. Ascoltate attentamente tutte le 13 tracce dell’album e tra queste troverete di sicuro alcuni dei migliori brani Death metal di sempre.
Matteo Bovio

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