Recensione: The Fullness Of Time

Di ShredderManiac - 23 Ottobre 2005 - 0:00
The Fullness Of Time
Band: Redemption
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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90

I capolavori, per essere definiti come tali, hanno bisogno di tempo affinchè questo lavori a loro favore, spegnendo i facili entusiasmi ed i clamori del momento, per addivenire, mediante rivisitazione critica, ad una considerazione dell’ opera per quello che oggettivamente rappresenta nel contesto di un genere. Sono sicuro che proprio il tempo che scorre nella sua piena incessante lavorerà in questo senso per il secondo disco dei Redemption consacrandoli definitivamente come uno dei grandi gruppi della scena prog-metal. I Redemption avevano già impressionato con il loro debutto omonimo dimostrando di saper scrivere pezzi articolati musicalmente ed impegnativi nelle tematiche liriche, non scevri di un’ originalità distintiva. Ora il mastermind Nick Van Dyk ha smussato quelli che potevano essere considerate le imperfezioni del precedente lavoro ed ha plasmato quest’ opera d’ arte: ha trovato una sezione ritmica definitiva che ottimamente si è incastonata nello stile del gruppo (all’ esordio c’ era Jason Rullo come ospite alla batteria), ha migliorato la produzione servendosi del sapiente lavoro di Tony Newton (Conception, Ark, etc.) che ha donato alla band un suono unico, ci ha regalato la splendida partecipazione integrale di un Ray Alder ritrovato, che è diventato membro del gruppo a tutti gli effetti, con una performance straordinaria per potenza ed interpretazione, ma soprattutto Van Dyk ha composto una serie di pezzi di un’ omogeneità e compattezza incredibili.

Il platter nei suoi testi ha un significato profondo che collega i vari brani tra loro (pur non essendo lo stesso album un concept), un significato, probabilmente sofferto e meditato, riguardo i rapporti interumani, quelli amorosi, quelli d’ amicizia, anche quelli di mero interesse, di cui da una interpretazione piuttosto desolante orientata sulla massima schopenhaueriana: “E’ difficile trovare la serenità in sè stessi, impossibile trovarla negli altri”. E’ vero che una vita solitaria di per sè è molto difficile da condurre, angosciante come solo una stanza buia popolata dagli spettri della solitudine può esserlo “Scarred”, ma sembra essere l’ unica via per combattere i demoni-uomini che ci circondano, anche se per lottare contro i mostri corriamo il rischio di diventare noi stessi dei mostri, secondo quanto già aveva affermato Nietzsche. Ma cercare la compagnia dei nostri simili non è assolutamente consigliabile. Anzi secondo il compositore i rapporti inter-umani sono semplicemente causa di sofferenza, anche quando li crediamo stabili e duraturi alla fine si rivelano  per la loro vera essenza che è labile ed effimera “Thread”, ed il piacere ingannevole che ci hanno donato in precedenza, l’ amorevole passione che li ha accesi, li rende ancora più amari ed invisi alla nostra anima nel momento in cui bruscamente cessano apparentemente senza motivo “Sapphire”. E se non sono causa di dolore nell’ immediato, addirittura sul lungo periodo sono la ragione prima della progressiva corruzione continua, vita natural durante, che travia la nostra pura innocenza neonatale fino a farci commettere gli atti più bestiali, che di umano in senso stretto non hanno più nulla, come quelli verificatesi nel giorno di tregenda dell’ undici settembre 2001 “Parker’ s Eyes”. E tutta la rabbia e la disperazione che possiamo provare, schiacciati da siffatta condizione esistenziale,  possono a volte spingerci a pensare di rinunciare alla lotta ed alla vita stessa, perchè in fondo poco meritevole di essere vissuta. Ma alla fine Van Dyk ci offre un barlume di speranza, un lampo di luce che riesce a squarciare anche le nuvole più nere: il dolore come catarsi da peccati precedentemente commessi e come esperienza educazionale per non ripetere gli errori pregressi, soprattutto in termini di qualità delle relazioni che ci siamo procacciati, speranzosi che la vita attuale è solo un passaggio verso qualcosa di più grande, e pertanto necessita di essere vissuta pienamente fino alla fine “The Fullness Of Time”. Inutile spiegare il modo in cui la musica cuce tutti questi pensieri in una abito dalla splendida foggia, non saprei descriverlo a parole e renderei torto all’ opera dei Redemption. Le parti strumentali sottolineano ed enfatizzano quello che Ray Alder canta, a volte in maniera rabbiosa, a volte desolata, a volte ancora struggente, su linee vocali di una bellezza disarmante, in alcuni tratti contrappuntate dal piano soave di Van Dyk. Il livello tecnico dei musicisti è elevato ma così consono al significato dell’ opera che nemmeno lo percepirete. Un plauso a proposito va al mirabile lavoro delle chitarre soliste di Bernie Versailles e dello stesso Van Dyk, axemen che non hanno nulla da invidiare ai più blasonati del genere. Un ultimo appunto: proprio nell’ incipit dell’ album, all’ inizio della prima traccia “Thread”, c’è un inciso tratto praticamente nota per nota da un brano (alla vostra perspicacia indovinarlo) dei Symphony X, ma prima di bollarlo magari in maniera incauta sappiate interpretarlo per quello che è, ossia come una citazione colta in omaggio ad un gruppo che deve essere molto caro al compositore (vista la presenza come ospiti di Jason Rullo e Michael Romeo nel disco d’ esordio dei Redemption). Ho concluso. Vi auguro che questo platter  possa regalarvi almeno la metà del piacere che mi ha concesso personalmente. Sono ancora stordito da cotanta bellezza.

Alessandro “ShredderManiac” Martorelli

Tracklist:
1. Thread (5:43)
2. Parker’ s Eyes (6:15)
3. Scarred (7:56) 4.
4. Sapphire (15:55)
5. The Fullness Of Time:
a) Rage (5:01)
b) Despair (3:20)
c) Release (5:16)
d) Trascendence (7:59)

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