Recensione: The Good, The Bad And The Damned

Di Vittorio Sabelli - 22 Settembre 2013 - 9:30
The Good, The Bad And The Damned
Band: Zud
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2013
Nazione:
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75

 

Cosa avranno mai in comune Grateful Dead e Mayhem, Allman Brothers Band e Immortal? Apparentemente (quasi) nulla se non l’esser stati fonti d’ispirazione nel tentativo di accostare linguaggi e generi lontani sotto un denominatore comune. E quest’opera di aggregazione è il punto cruciale dell’esordio degli americani Zud. Formati in partenza dal duo Justin e Greg che hanno dato alla luce il primo EP “Fevered Dreams”, datato 2011, gli Zud hanno deciso di ampliare l’assetto per poter esprimere al meglio le proprie visioni tra seventieth e ninetieth.

E proprio dal primo EP è stato preso in prestito un unico brano (“The Junction”), cambiato di forma dalla sua iniziale struttura strumentale. La nuova versione è stata ampliata sia come durata che con l’aggiunta del testo, particolarmente significativo nelle parole, che poco hanno in comune con quelle espresse dalle foreste norvegesi: «Gazing Out At The Stars As They Sing Down To Me. Water Rising Ringing Up Through Lowest Sea, Cries Echoing In The Night, Tears Flowing In The Pouring Rain, Time To Bag This Beast Westbound For Her Horn’s Calling Me Again». La sezione finale in cui la chitarra di Zak si lancia in un solo così tipico del compianto Duane Allman, e nello stesso tempo quel che accade al di sotto di essa è lo spirito del progetto messo in atto dai Nostri. Doppia cassa in stile black e accordi larghi che sostengono il solo blueseggiante e psichedelico, niente affatto male, anzi!

L’ascolto si sviluppa principalmente in questo senso, con Justin che narra di “viaggi” e sogni, come Jerry Garcia narrava alla generazione degli hippie (esagerando un bel pò), ma quel che colpisce è la proposta musicale varia, che abbraccia diverse decadi e continenti, ed è alla base del sound degli Zud. Sound che tocca sul filo del rasoio punti estremi: dalle melodiche chitarre iniziali di “Skull Shaped Bell” alle improvvise ripartenze che lasciano senza fiato, per poi tornare a raccontarci storie di altri tempi con chitarre tipicamente rockeggianti, ad abbattere trent’anni di storia della musica. E il tutto fatto con sapienza e disinvoltura, segno di evidente presa di coscienza da parte della band, che decide di perseguire quest’intrigante simbiosi tra universi (non troppo) distanti.

La voce di Justin non tocca apici di aggressività tipici dei blackster, ma riesce a ruggire in maniera ‘giusta’ per plasmare i vari stili e le varie situazioni messe in campo. La seconda sezione è ‘open’, un’impro modale basata su un unico accordo, e qui tanto di cappello per buttare nella mischia il southern rock tipico e unico degli Allman Brothers Band, unici e inconfondibili padri di questo particolare sound. E il crescendo finale è la giusta ricompensa per questa lunga cavalcata attraverso i suoi 12 minuti.

“Blood And Twilight” si snoda su ambienti orientati verso la sponda nordeuropea con le chitarre elettriche trasformate come distorsione e le acustiche proiettate a spezzare il brano in vere e proprie sezioni, la cui ultima è caratterizzata da un guitar-solo che si alterna con la voce acidula per condurci verso un finale blaterato al megafono. E la discussione diventa ‘di coppia’ e si fa a mano a mano concitata nella conclusiva “Dendrite Fumes”, mentre il palm-muting della chitarra lascia crescere l’attesa, che esplode all’improvviso con la voce che prende il sopravvento sul resto, imbattendosi in territori poco comuni, dove diverse razze s’incontrano e convivono, fondendosi in un’unica grande popolazione. Ma i riff melodici di Zak in simbiosi con il drumming di Greg decidono di turbare quest’equilibrio interno, volgendo nuovamente lo sguardo verso il Nord e spronando la band a continuare il discorso intrapreso fin dall’inizio.

E non hanno torto, perché la mistura di “sleazy’n cheesy’n bluesy outlaw rockin’ black metal” come la chiama la band, è il punto vincente, che magari non la cataloga in una categoria stilistica ben precisa, ma che rende l’ascolto piacevole e fresco. Pregevole lavoro autorpodotto degli Zud, di quelli ‘nella terra di nessuno’, che si spera non passi inosservato; sarebbe un vero peccato!

 

Vittorio “versus” Sabelli

 

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