Recensione: The Gravity Of Impermanence

Di Daniele D'Adamo - 30 Aprile 2013 - 0:01
The Gravity Of Impermanence
Band: Azure Emote
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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Gli Azure Emote esistono da ben due lustri, ma hanno sempre centellinato al massimo le loro uscite discografiche. Talmente al massimo che, dopo il debut-album del 2007 (“Chronicles Of An Aging Mammal”), solo quest’anno hanno deciso di dare alle stampe il secondogenito, “The Gravity Of Impermanence”.

I motivi di questa sterilità sono sostanzialmente tre. In primis, i gravosi impegni collaterali dei tre principali membri della formazione (Mike Hrubovcak: Abraxas, Monstrosity, Vile, Divine Rapture, ex-Imperial Crystalline Entombment, ex-Rumpelstiltskin Grinder, ex-XXX Maniak (live); Ryan Moll: Dust Is Everywhere, Evil Divine, Old Head, Rumpelstiltskin Grinder, Shadows In The Crypt, Total Fucking Destruction, Divine Rapture, ex-Solace In The Shadows; Mike Heller: Fear Factory, Malignancy, System Divide, World Under Blood, Kalopsia (live), ex-Success Will Write Apocalypse Across The Sky). Poi, uno stop – dovuto, proprio, dall’attività extra-Azure Emote di Hrubovcak – dal 2007 al 2011. Infine, un approccio musicale tremendamente complesso, che involve una moltitudine di tanto diversi quanto complementari generi e stili, tale da richiedere moltissimo tempo e parecchia pazienza prima di giungere a una perfetta definizione delle incredibili idee che frullano nella mente dei Nostri.   

A tal proposito, già affrontando l’opener “Epoch Of De-Evolution” è subito evidente la ristrettezza sostanziale di un genere ancorché di ampia caratterizzazione come il death, quale tentativo di classificazione di una sterminata marea sonora che è “The Gravity Of Impermanence”. Un album, cioè, disteso quasi all’infinito nelle tre dimensioni spaziali e in quella temporale (più di un’ora di durata); così ricco di note, accordi e contaminazioni da richiedere una cospicua quantità di ascolti per tentare di venirne a capo. In esso, tanto per sintetizzare al massimo, si possono trovare technical death metal, avantgarde, progressive, gothic, industrial ma anche ambient, new age e musica classica. Per un’overdose continua di dissonanze, accidenti musicali, aperture melodiche, cambi di tempo, divagazioni e sperimentazioni tali da disorientare, almeno all’inizio, anche il più smaliziato ed esperto degli ascoltatori di musica estrema. Difficile fare paragoni con qualcos’altro di esistente, al Mondo. Forse gli Strapping Young Lad del geniale Devin Townsend possono aver tentato una simile strada compositiva ma, invero, probabilmente solo Hrubovcak e compagni si sono spinti, oggi come ieri, più in là dei confini conosciuti del metal.

Certo è che “The Gravity Of Impermanence”, se paragonato a un ‘normale’ lavoro di death, anche nelle sue versioni più tecniche, pare durare il triplo rispetto al reale minutaggio: ciascun brano è un lunghissimo viaggio a sé stante, attraverso i labirintici e sinuosi gangli della mente umana, nell’esplorazione di territori tanto vasti quanto affascinanti.

Troppo vasti? In effetti, il rischio principale che si corre quando si decide di mettere così tanta carne al fuoco è di perdere la direzione principale per disperdersi in numerosi rivoletti divergenti fra loro. Che, invece di alimentare un unico concetto fondante che stia alla base dell’opera, alla fine sperperano un patrimonio creativo illimitato come quello del sestetto di Philadelphia, appunto. Il quale, intrappolato nella sua stessa voglia di esplorare il più possibile l’orizzonte musicale, finisce per strafare; dilatando esageratamente una proposta che, invece di essere profonda e coinvolgente, si trasforma in una lamina sottile e poco accattivante.   
 
Certi inquinamenti, almeno nella proporzione presente in “The Gravity Of Impermanence”, tendono a snaturare, a deformare eccessivamente la regolare matrice concettuale che, una volta messa su rigo, dà luogo al metal estremo. A parere di chi scrive, infatti, non si dovrebbe tirare per il collo la filosofia musicale che vede il death, comunque sia, discendente diretto del rock e della sua semplice linearità. Perché, così facendo, vengono meno i requisiti fondamentali del genere stesso come la potenza, la forza devastante, la brutalità, l’aggressività; diluiti in un oceano di astrusa tecnica strumentale e di arzigogoli inintelligibili.

Così, gli Azure Emote finiscono per dare, nel complesso, una sensazione di glaciale inconsistenza che è, probabilmente, l’esatto opposto di quanto si fossero prefissi in sede di songwriting. Dando pertanto vita a un lavoro esemplificativo di uno spettacolare virtuosismo sia tecnico sia artistico ma, nello stesso tempo, lontano dall’obiettivo primigenio del metallo oltranzista: mietere più vittime possibili con l’energia sonora allo stato puro. Metaforicamente, parlando, s’intende!

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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