Recensione: The Great Divide

Di Roberto Gelmi - 1 Ottobre 2014 - 14:00
The Great Divide
Band: Enchant
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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A volte i desideri si avverano. In questa sede parliamo, ovviamente, di desideri musicali, che non vanno mai troppo sottovalutati. Si poteva fare a meno, infatti, dell’ottavo studio album targato Enchant, dopo un decennio di latitanza del gruppo statunitense? Probabilmente sì, viste le uscite di Affector, Thought Chamber e Spock’s Beard, con Ted Leonard finalmente valorizzato; ogni progster che si rispetti, però, se ha tenuto viva una fiamma di speranza in questi due lustri, ora non potrà che dirsi ben ricompensato.
Fa sorridere la sprezzatura con cui il mastermind Douglas A. Ott giustifica tale lunghissima attesa e il quasi scioglimento del combo californiano. Parla, invero, di una serie di circostanze, dai matrimoni di alcuni membri del gruppo, all’impegno del singer con altre formazioni, al tour dei Sound of Contact (band del figlio d’arte Simon Collins) in cui ha militato Bill Jenkins.
Gli Enchant, nati sotto l’ala protettiva di Steve Rothery, hanno esordito con un gran disco come A Blueprint of the World nel lontano 1993; oggi restano una di quelle band di nicchia, o di culto (a seconda dei punti vista) che trae la sua forza dal modo originale in cui sa modellare il progressive rock. Spesso criticati per il loro sound zuccheroso, i cinque statunitensi, in realtà, sono dei musicisti invidiabili e, come ben s’intuisce dal loro moniker, puntano su un trademark cristallino e solare, non scevro, però, di momenti intimi e altri più tirati (soprattutto in quest’ultimo album).
The Great Divide è, dunque, un disco spartiacque che rilancia il combo americano, sperando di proiettarlo in un futuro roseo e meno precario. Non si tratta di un concept, bensì siamo di fronte al manifesto di una rinascita dopo un lungo esilio “biblico”.
Ott questa volta ha tentato di coinvolgere maggiormente gli altri membri del gruppo, ma resta il deus ex machina del platter, registrato al solito “Ottotorium” Studio, punto di riferimento degli Enchant dal ’97. Un grazie sentito, dunque, al fondatore della band, artista che crede ancora nel valore della buona musica e in una vocazione di vita coerente.

Cuffie alla mano, ascoltiamo il full-length dell’avvenuta palingenesi.
L’opener “Circles” si presenta un intro “spaziale”, poi prosegue con ritmiche quadrate e velata dal manto di synth e hammond. Si segnalano buone parti corali e alcuni inserti lisergici. Il refrain è un po’ sottotono (con una terribile voce mimetica filtrata), ma Leonard lo riscatta quando sale su registri alti.  Al quarto minuto stupisce la sezione strumentale, d’inconfondibile matrice Enchant, che termina in un unisono orgastico. Curiose le similitudini belluine cantate, subito dopo, da Leonard, mentre le tastiere sono vicine alla lezione di Jordan Rudess (che pare anch’egli rinato con gli LMR e l’ultimo disco solista Explorations). I cinque americani si confermano band generosa e, così, sul finire del quinto minuto, trova spazio un altro grande assolo di chitarra e, in chiusura di brano, un exploit di tastiera.
La band di San Francisco non è mai stata, altresì, estranea a sonorità più rocciose rispetto al prog. rock canonico: ecco allora spiegato il piglio convincente di “Within An Inch”, pezzo “più Enchant” del lotto (con il solito sweep-picking, tastiere giocose e improvvise partenze a fulmine dell’hi-hat), che splende per positività. Brilla anche il drumwork, variegato e ficcante, oltre alle parti magiche di pianoforte. Il finale ha momenti vicini ai migliori Marillion e Ott è ispiratissimo su cadenze dei tasti d’avorio come sottofondo.
La mesta (a tratti) titletrack vive, invece, di chiari echi agl’immortali Yes (non solo nelle linee di basso), schiarite ripetute e un ritornello con armonizzazioni vocali non proprio invitanti, salvato, però, da un main theme falotico, pensate, composto da Doug Ott nientemeno che all’età di diciassette anni e mai, finora, registrato in studio. Si capisce, perciò, come il mastermind tenga particolarmente a questo brano, simbolo delle tante fatiche vissute dal gruppo per arrivare all’ottavo disco in carriera.
All Mixed Up”, a metà album, attacca quasi come un pezzo metal ed è la canzone più tirata del lotto (e dell’intera loro discografia, se si escludono certi momenti heavy di “Despicable Man”). Gli Enchant guadagnano in ecletticità e le atmosfere per quattro minuti si fanno bigie. Ne trae beneficio anche la successiva “Transparent Man”, brano sorretto da bicordi e tanta orecchiabilità, che spicca dopo la cupezza del pezzo precedente. Ottime dinamiche per “Life In A Shadow“, traccia suadente che scorre lieve e rigenerante, con la solita ricerca melodica e le giuste e centellinate asprezze.
Dopo un simile accostamento d’opposti, “Deserve To Feel” è giocata su buoni controtempi ed è piacevole l’assolo in tapping nel finale. L’ultima traccia, “Here And Now”, inizia con il  suono di una carica a molla, seguito da un hilight di basso, anch’esso in tapping. Un hic et nunc graditissimo che rievoca il lato onirico e ricercato del combo statunitense (senza però raggiungere gli estremi di un brano come “Mae Dae”) e invita a un risveglio metafisico, a metà del quarto minuto, con tanto di fugace squillo della sveglia citata in apertura. Il tema del carpe diem è sempre attuale e i nostri esortano l’ascoltatore a rivelare i propri sentimenti alla donna amata prima che sia troppo tardi.

La versione limitata dell’album (2CD Mediabook) contiene la bonus track “Prognosticator” (altri otto minuti prog.) e un disco aggiuntivo, quale best of del gruppo, che ha scelto di raggruppare dieci canzoni della propria discografia.

In definitiva The Great Divide è un full-length maturo (anche più di Tug of War e dell’ultimo platter in casa Thought Chamber), con marcato eclettismo, perizia tecnica, privo delle virate pop di Blink of an Eye, e ricco di buoni assoli chitarristici. Gli Enchant restano, altresì, l’ambiente naturale dell’uomo d’oro Ted Leonard e confermano la loro inconfondibile riconoscibilità dopo vent’anni d’onorata carriera. Ancora una volta un album incantevole da tenere in seria considerazione nella top ten dell’anno in corso.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

 

 

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