Recensione: The Great Divide

Di Eric Nicodemo - 17 Ottobre 2014 - 8:30
The Great Divide
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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70

 

Ci chiediamo, talvolta, se è bene che una storia abbia il proprio seguito o debba concludersi con il suo giusto epilogo. Queste considerazioni potrebbero essere tranquillamente applicate a “The Great Divide”, quarto capitolo della saga Allen/Lande, progetto che univa in un solo combo due cantanti d’eccezione, Russell Allen (Symphony X) e Jorn Lande (Masterplan), ed il talentuoso axeman Magnus Karlsson (Starbreaker, Primal Fear). La prime perplessità erano sorte alla notizia dell’uscita di Magnus Karlsson dal progetto e della sua sostituzione con Timo Tolkki, a cui sarebbe stato affidato il compito di principale compositore, chitarrista e, ovviamente, tastierista. Da queste premesse, sorge spontanea una domanda: il sound degli Allen/Lande avrà subito dei cambiamenti o è ancora decorato da quelle formidabili architetture chitarristiche?

La risposta al quesito è celata nell’iniziale “Come Dream With Me”: le melodie corali mantengono un certo splendore, esaltate dall’ugola del main vox. L’immaginario di Tolkki acquista forma in un riff dalle sfumature regali e guizzanti, mentre l’invito del ritornello, sinuoso e potente, vuole penetrare nelle profondità del nostro io. Al di là delle suggestioni evocate da “Come Dream With Me”, gli abituali ascoltatori degli Allen/Lande si accorgeranno che l’opener manca di qualcosa: il guitar play appare compresso in passaggi più brevi e meno minuziosi rispetto alle precedenti uscite, quasi il songwriting fosse stato privato del suo slancio barocco ed articolato.

Il cambio di regia appare, dunque, già consolidato nel primo ascolto: la nuova condotta delinea una proposta lineare e meno ricercata, che intrattiene senza abbagliare con il carisma del solismo più neoclassico e dettagliato, tecnico ma accessibile e mai asservito all’autocompiacimento. Perché la caratteristica peculiare degli Allen/Lande risiedeva proprio in questo: mediare partiture ad ampio respiro, con maestria e gusto, a refrain e motivi fruibili e, al contempo, privi di prevedibilità o semplicità concettuale.

E le avvisaglie del “cambiamento” più che mai sono evidenti in “Down From The Mountain”: l’abusato riff hard’n’heavy ruggisce in una canzone di maniera, un approccio classico confermato dal focoso chorus che fa scorrere il vento tra i capelli. Un episodio nella norma, che i vecchi Allen/Lande avrebbero reso meno prevedibile e che i “nuovi” avrebbero dovuto rendere meno scontato.

Nemmeno i languidi tocchi e i rampanti vibrati scaturiti da “In The Hands Of Time”, sembrano colmare il vuoto di un tune chitarristico dal piglio estroso, come questo monicker ci aveva abituato nel passato. Migliorano l’impatto le spire delle liriche, che sembrano fermare il tempo riportandoci indietro negli anni novanta, all’interno della scena power/epic (Stratovarius).

Oramai, anche il telaio compositivo mostra i segni di una certa ripetitività di fondo: compare spesso l’abituale guitar solo che, con qualche funambolismo di maniera, pretende di catturarci. Purtroppo, l’unica cosa che risuona nella nostra mente è sempre la stessa domanda: dov’è andato il guitar work che stupiva e affascinava tra tecnicismo e brio? Che fine hanno fatto quelle superbe melodie che instillavano passione e adrenalina?

Da qui in poi, addentrandoci nel cuore dell’opera, si percepisce l’incapacità di osare e sperimentare commistioni di generi e suoni. E così nascono canzoni sì gradevoli ma allestite su un canovaccio definito, linee di un disegno musicale già noto: sia “Solid Ground” che “Lady Of Winter” prevedono un intro e una coreografia tastieristica, che viene spezzata da poderosi inserti della sei corde. Il pattern solista di “Solid Ground” indugia su tonalità orientaleggianti, riecheggiando un mood già visto nella precedente “In The Hands Of Time”.

Se le canzoni trovano un’ancora di salvezza nell’interpretazione vocale, il loro potere ammaliante è ben lungi dal fantastico album “The Revenge”: il chorus di “Lady Of Winter” tenta di stupire, rivelando una creatività congelata in una proposta lacunosa di reali novità.

Dream About Tomorrow” migliora la situazione, con punte di lirismo estratto e canalizzato nelle alte strofe. Il contributo di Timo ancora una volta è insufficiente ad arginare la mancanza cronica delle fantasie alla Karlsson che impreziosivano il marchio. Rimangono deboli gli spunti delle keyboards, lontani dai labirinti tastieristici e dalle aperture sinfoniche nelle quali i vecchi Allen/Lande osavano avventurarsi.

Anche nelle parti più drammatiche e teatrali (“Hymn To The Fallen”) il coinvolgimento dell’ascoltatore rimane solo un miraggio per il combo.

La title track tenta di risollevare la situazione, enfatizzando l’atmosfera con un plettraggio trascinato, ma il risultato non esalta. Il ritmo si assesta su un lento fluire (Dio), con le corde vocali che vibrano anguste, mascherando il vuoto incolmabile di un ritornello avaro di emozioni. Alla deriva anche il main guitar, incapace di accendere la scintilla della nostra emotività.  

Reaching For The Stars” si slancia con tiro passionale, un fuoco che non riesce ad ardere fino in fondo a causa di un refrain dalle flebili melodie, affidate ai tasti velati di Timo, laddove era necessaria l’energia di un riff infuocato (o atmosferico) per far spiccare il salto decisivo.

La formula compositiva “semplificata” da inaspettatamente i suoi frutti nella ballad “BitterSweet”, la migliore prova dell’album. I tasti (a dire il vero un po’ scarni) rasentano il cliché ma è il leitmotiv a salvare la song dal baratro dell’anonimato: le catene della malinconia e della disperazione ci avvincono grazie al cantato, che eleva attorno a noi un’armonia infrangibile e vibrante. L’assolo griffato da Timo è degno d’attenzione, sebbene la scena sia tutta focalizzata sul refrain.

Scorrendo l’ascolto, quando il minutaggio sarà concluso e il disco si fermerà, lasciandoci immobili in silenzio, il quadro sarà completo: se pensavate che l’entrata di Tolkki fosse una mossa discutibile, per dare un sequel “inatteso” alla precedente trilogia, i vostri dubbi non erano infondati. La proposta mostra evidenti segni di stallo creativo, causato dall’assenza di Magnus, il vero deus ex machina del progetto. Tuttavia, le aspettative suscitate rimanevano: gli Allen/Lande nel tempo hanno dimostrato che le più grandi soddisfazioni possono derivare da una sorpresa inaspettata, da album fuoriusciti dal nulla ma capaci di saziare la mente e scuotere il cuore.

A differenza di un songwriting in genere scarico d’idee, le altisonanti performance vocali assicurano un discreto fascino all’album, tale da attirare l’attenzione dei neofiti e di tutti gli amanti delle sonorità contaminate dall’epic e dal power metal a là Stratovarius/Helloween.

Per coloro che, come il sottoscritto, rimangono troppo affezionati a “The Battle” e “The Revenge”, l’ascolto lascerà il rimpianto dei voli avventurosi tracciati da Magnus in un scenario variopinto, nato dall’incontro tra AOR, heavy e prog metal. Una sapiente e riuscita miscela che è stato il vanto degli Allen/Lande e che in questo album è soltanto un pallido ricordo.

In definitiva, “The Great Divide” ci fa capire che una storia è bella proprio perché, raggiunto l’apice narrativo, si conclude, lasciandoci con le emozioni irripetibili ma indelebili che ci ha trasmesso. E forse anche la grande disputa degli Allen/Lande avrebbe dovuto concludersi tempo fa, nella gloriosa foga del combattimento.

Eric Nicodemo

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