Recensione: The Grey Eminence

Di Daniele D'Adamo - 14 Settembre 2016 - 18:23
The Grey Eminence
Band: WarFather
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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85

È una lunga forma di collaborazione, quella che cementa Steve Tucker (voce, chitarra – Morbid Angel) a Erik Rutan (Hate Eternal, exMorbid Angel). Com’è plausibile, un legame stretto a causa dell’appartenenza di entrambi, seppure in momenti sia contemporanei, sia diversi, alla leggendaria formazione di Trey Azagthoth

Così, dopo il debut-album “Orchestrating the Apocalypse”, del 2014, per Tucker e i suoi due formidabili compagni Jake Koch (chitarra) e Bryan Bever (batteria) – i WarFather – è l’ora del nuovo arrivo: “The Grey Eminence”

Un full-length mostruoso.

Manifesto assoluto di cosa sia il death metal (classico) nella seconda decade del terzo millennio. Tecnica stratosferica, esperienza spaventosa: se si riflette sul ruolo che hanno avuto i Morbid Angel nella transizione thrash/death, nella seconda metà degli anni 80, vien quasi da sé trarre la conclusione che Steve Tucker sia, il death metal. Esattamente come lo fu Charles Michael “Chuck” Schuldiner ai suoi tempi.

Chiaramente non è il talento esecutivo a dare la spinta decisiva a “The Grey Eminence” quanto, ma non era altrimenti, l’eccelsa qualità del songwriting. Perfetto nella costruzione di song permeate sino al midollo dalla sofferenza, dal dolore, dalla morte. Carni torturate, membra sfatte, ossa distrutte. In un martirio che vive la consapevolezza che non esista speranza, non esista gioia, non esista felicità. Emozioni fallaci, ingannevoli, illusorie. Mortali. Proprio perché atte a indurre che possano esistere attimi diversi dalla mostruosa dannazione dell’esser vivi. Dell’esistere. 

I WarFather, con la loro spaventosa pressione sonora, insostenibile a tratti, macellano, fanno a pezzi, divelgono l’apparato percettivo umano. Orecchio e cervello vengono straziati, lacerati, strappati dalla forza di song dall’impossibile pesantezza. 

‘Judgement, The Hammer’, un calvario d’allucinata consapevolezza che solo lo spegnimento dei sensi terminerà quell’assenza di gioia che alimenta a dismisura il male di vivere. Gli inumani blast-beats del drumming (‘For Glory or Infamy’) sono come strappi, violazioni, spaccature nella resistenza alla sopravvivenza. Ma quale sopravvivenza? Non si può sopravvivere a un Mondo elaborato sull’egoismo, sulla menzogna, sull’umiliazione dei sentimenti. 

L’eminenza grigia che, a mò di burattino, muove le sue pedine, gli esseri umani, prova divertimento a osservarli mentre si massacrano in guerre, mentre calpestano i sogni l’uno dell’altro, deludono le aspettative, spezzano le attese. Il rombo titanico dei brani di “The Grey Eminence”, come per esempio si ode in ‘The Dawning Inquisition’, sono la voce del death metal. Il suo urlo di disperazione: non c’è vita, nella vita.

Suite gigantesca, ‘Grey Eminence’. Lenta all’inizio, violentissima a tratti, massiccia come null’altro nel Cosmo. Densa, che ferisce in profondità la carne. Ancora dolore, male. Sensazioni psicologiche e fisiche le quali identificano con aberrante chiarezza il rifiuto di respirare, il desiderio di affogare. I suoi toni sono cupi, tetri, oscuri. Morbosi, malati. Sì, finalmente, malati. Mood da anticamera della morte, mirabilmente stampato su disco dai tre Campioni. Umore plumbeo. Non-vita. Annichilazione. Dissolvimento. Sparizione dallo spazio e dal tempo.

Fine.

Death.

Metal.

Daniele D’Adamo

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