Recensione: The Headless Ritual

Di Vittorio Sabelli - 24 Giugno 2013 - 0:05
The Headless Ritual
Band: Autopsy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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82

 

«Autopsy is death metal and death metal is Autopsy!».

Eccoci di nuovo al cospetto di una vera leggenda del genere, che mai è sceso a compromessi e mai si è adeguato alle logiche di mercato. Fedele alla causa come pochi, come solo gli ambienti underground sono capaci; passione, dedizione e sacrificio sono gli ingredienti di chi porta da un quarto di secolo la bandiera dell’old school: Chris Reifert.

E il sesto full-length che segue a distanza di due anni “Macabre Eternal” è anche il suo proseguo, e porta il nome “The Headless Ritual”. Tutti sintonizzati per quest’attesissima uscita che esprime completamente il lato underground, quello oscuro e allo stesso tempo affascinante del metal, che non ricerca termini quali tecnico e compositivo, ma piuttosto va a scovare le cellule più remote e nascoste del nostro io. Le vibrazioni che scaturiscono dal doom e dagli slow-tempo si fondono con i riff incendiari ed esplosivi di Cutler e Coralles, minando il percorso sul quale il timbro brutale di Reifert è la miccia che li farà brillare.

Ognuno dei 2660 secondi di “The Headless Cross” sarà vissuto come un’esperienza mistica che ci riporta indietro nel tempo, facendoci toccare con mano il metallo di morte purissimo, che ormai è una rarità, entrando in simbiosi con le nostre menti. Un’esperienza che non può lasciarci indifferenti, poiché gli Autopsy ci immergono nel ‘vero’ mondo sotterraneo, quello fatto di sudore, di marcio e di melodie improbabili che si scontrano e s’incrociano con ‘quei’ cambi di tempo mozzafiato che ci inducono a riflessioni estreme ma altrettanto intime. Ogni scansione sul ride da parte di Reifert lascia la relativa pausa per immagazzinare l’elemento musicale, e viene toccata con mano l’abilità nella perfezione della scelta coloristica degli strumenti che lo circondano, comprese le quattro corde di Joe Allen. L’evocativa cover porta la firma di Joe Petagno, celebre artista che ha contribuito a cover per Marduk, Illdisposed, Krisiun, e prima ancora per Pink Floyd e Led Zeppelin. Anche se il suo nome è stato portato alla ribalta dal ruolo in pianta stabile nei Motörhead, poiché è il padre della loro mascotte Snaggletooth, per la celebre copertina del loro primo omonimo album del 1977.

“Slaughter At Beast House” è l’attesa opener: si parte a mille, stacchi killer, ritmiche e riff tipici che si schiantano contro quel doom che cambia atmosfera e paesaggio. Le melodie delle chitarre e il seguente solo galleggiano sulle fioriture della batteria, e poi ancora basso distorto e batteria fanno da background a un irresistibile Reifert, che emerge con la sua ugola. Ancora chitarre coloristiche continuano il gioco timbrico fino a un ultimo stacco che chiude questa prima ‘impressione’. L’up-tempo di “Mangled Far Below” fa visita agli altari di morbosa follia con colori e forme tipici di Azagthoth e soci, con il suo riff chunky e le parti vocali di Reifert. Il feedback caotico iniziale introduce il brano più lungo dell’album, con i suoi sette minuti di cambi direzionali, tematici ed espressivi tra stacchi, soli di chitarra, break di batteria e armonie dalle tetre atmosfere, fino all’esplosione nella seconda sezione, con il vomito vocale che richiama tempi doom e arpeggi funerari: tutto questo è “She Is A Funeral”. Il lick dissonante d’intro e outro e la voce caotica iniziale che si trasforma in declamata nella sezione dei ‘respiri’ sono “Coffin Crawlers”, le cui chitarre armonizzate si aprono in soli melodici e persuasivi. Il caratteristico timbro vocale lancia il riff di “When Hammer Meets Bone”, sempre in sintonia con il drumming di Reifert, che nonostante i tanti slow-tempo riesce sempre e in qualche modo a differenziarli tra di loro, non tanto sotto il profilo tecnico quanto sotto quello dei timbri, e in questo caso basta una sola nota della chitarra a farci scoprire nuove mete del nostro io.

Le chitarre maideniane di “Thorns And Ashes” hanno come unico scopo quello di lasciar tirare il fiato come in un intermezzo. La sequenza di accordi di “Arch Cadaver” dettata dal basso di Allen in sintonia con l’hit-hat semi-aperto di Reifert, sono l’interludio per la loro famosa galoppata, proveniente da ambienti punk e così cara anche ai Master di Paul Speckmann (che non casualmente resta sulla stessa lunghezza d’onda degli Autopsy). Il brano segue una struttura classica con tanto di strofa, chorus, solo di chitarra e via… si re-inizia per il secondo giro! “Flesh Turns To Dust” scorre sui riff di Cutler e Coralles e sul timing punkeggiante di Reifert e l’unisono iniziale di “Running From The Goathead” conduce voce e chitarre a dialogare secondo uno schema domanda-risposta su tempi tiratissimi. La forma-canzone tipica del brano sfocia in scale neoclassiche che incitano la voce a cambiare direzione, ed ecco Coralles che si lancia in un solo fulmineo che ci conduce alla conclusiva “The Headless Ritual”, unico brano strumentale in 6/8, che con i suoi stacchi e la sua monotona bellezza ci lascia riflettere sulle ultime note della band di San Francisco.

Che ridà nuova linfa al death metal, quello classico, quello fatto di passione e dedizione, che possiamo ricondurre a un solo nome e a una sola frase: «Chris Reifert and Autopsy are death metal!».

Vittorio “Dark Side” Sabelli
 

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