Recensione: The Hourglass Effect

Di Luca Dei Rossi - 3 Aprile 2009 - 0:00
The Hourglass Effect
Band: ShadowKeep
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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58

A sei anni di distanza dall’ultima release i capellutissimi Shadow Keep tornano sul mercato con il loro terzo full-length The Hourglass Effect. La band è stata formata nel 1999 da Chris Allen e da Nikki Robson (chitarre) a cui si sono successivamente uniti Stony Granthem (basso), Omar Hayes (batteria), Scot Collins (tastiere) e un immenso Richie Wicks (ex-cantante dei grandissimi Tygers of Pan Tang) e da allora, dopo molti sforzi, gli Shadow Keep sono riusciti ad ottenere una discreta visiblità, arrivando a fare da spalla ad artisti del calibro di Ronnie James Dio, Halford, Symphony X, Dream Evil e Flotsam And Jetsam. La band si è mantenuta sin dagli inizi su livelli qualitativi mediamente più che sufficienti, senza mai strafare e allo stesso tempo senza mai scadere nel trito e ritrito o nel banale. L’album che mi accingo a recensire è anch’esso su questi livelli, con però uno punto a loro sfavore: la band ci (ri)propone (ancora) un Power con (ancora) una spiccata componente Progressive che, dati i precedenti album risulta piuttosto piatto: del disco le canzoni che rimangono in testa sono davvero poche.

Probabilmente quelle paroline tra parentesi dovrebbero avervi fatto capire perchè questo album, nonostante sia a livello di produzione e a livello di songwriting pressochè uguale agli altri (forse un tantino peggiore), rimanga difficile da apprezzare: la band non ha mai cambiato stile, non ha rivoluzionato (nemmeno in minima parte) il sound, ma ripete lo stesso tipo di idee ormai da 3 album (e mezzo, contando il demo). Gli Shadow Keep non fanno un uso smodato di tastiere, che vengono usate quasi sempre come “sottofondo”, e praticamente mai come lead instrument per qualche assolo. Si sente in diverse canzoni l’influenza dei Symphony X (vedere Incisor), e talvolta anche quelle dei Black Sabbath dei primi anni ’70 (vedi l’intro lento e asfissiante della prima Shadow Keep). La voce dello stesso Richie ricorda vagamente quella del grandissimo Madman, soprattutto nei toni medio-alti (l’effetto “miagolio” è simile). With Force We Come alterna al singing pultito il growl, ma ciò non serve a rendere la canzone più interessante perchè oltre ad essere usato poco è usato male e, come growl, non è nemmeno dei migliori. Se da una parte troviamo un riffing interessante (Riot On The Earth su tutte) dall’altra troviamo incisi che si dimenticano subito dopo averli sentiti; se da una parte troviamo assoli di chitarra di discreta fattura dall’altra troviamo poca originalità (Heart Shaped Stone e Six Billio Points Of Light iniziano esattamente allo stesso modo!). In genere le canzoni tendono ad assomigliarsi tutte, fatta eccezione per una fantastica How Many Times Have We Tried To Save The World, una ballata davvero stupenda che riesce a sollevare almeno un po’ le sorti non certo rosee dell’album, o per una carichissima As The Hourglass Falls, potente e trascinante.

The Hourglass Effect non soddisfa quindi le aspettative: ci si aspettava (o almeno, io mi aspettavo) un cambio anche leggero di direzione che, ahinoi, non c’è stato. Ne risulta come ho già detto un album piatto in cui riescono a salvarsi pochissime canzoni. Peccato, perchè le idee di base ci sono, gli assoli sono potenti e tecnici, le linee vocali con qualche aggiustatina sarebbero state buone…
Purtroppo mi trovo a bocciare una band su cui personalmente puntavo molto.
Se siete fan irriducibili comprate pure questo album, ma non aspettatevi miracoli. Per coloro che nemmeno sanno chi siano: passate pure alla prossima recensione, spendere soldi su questo disco non ha senso.

Tracklist:
1. Shadow Keep
2. Incisor
3. Ten Shades Of Black
4. Riot On Earth
6. Six Billio Points Of Light
7. Waiting For The Call
8. As The Hourglass Falls
9. Leviathan Rising
10. Heart Shaped Stone
11. With Force We Come
12. How Many Times Have We Tried To Save The World

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