Recensione: The Hydra’s Tailor

Di Francesco Sgrò - 2 Dicembre 2015 - 9:00
The Hydra’s Tailor
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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Due anni di intenso lavoro hanno portato gli inglesi Deadly Circus Fire alla realizzazione di questo The Hydra’s Tailor, secondo tassello di un mosaico discografico iniziato con l’album d’esordio The King And The Bishop. Una copertina minimale, ma efficace, anticipa le oscure trame musicali orchestrate dal quartetto londinese, che, avvalendosi della medesima formazione artefice del primo album, e forte, soprattutto, di una raccolta di buone canzoni, presenta un lavoro massiccio e ipnotico, dando libero sfogo a tutta l’aggressività ed eleganza del miglior progressive metal.

I primi istanti dell’opera sono affidati alla plumbea e breve “In Darkness We Trust” (titolo abile nel richiamare perfettamente anche le cupe tinte che caratterizzano l’essenza dell’artwork): in questa intro narrata è proprio la voce del singer Adam Grant a emergere significativamente. Segue un turbine metallico violento e granitico che si sublima nelle note della gelida “Animal”, opener squarciata da una serie di riff corposi e taglienti inanellati dalla 6-corde di Save Addario, il quale, coadiuvato da una precisa sezione ritmica affidata ai bravi Mike Enort (basso) e Paul Igoe (batteria), allestisce un devastante muro sonoro condito da intricati cambiamenti ritmici su cui aleggiano minacciose le disturbate linee melodiche interpretate dal vocalist (comunque attento nel far filtrare un po’ di melodia in un refrain interessante e ricercato).
Le coordinate musicali della band londinese restano invariate nella seguente “Where It Lies”, contraddistinta ancora da un’ottima prova tecnica dei singoli musicisti, i quali affidano nuovamente l’ossatura principale del brano alla chitarra di Addario, che macina instancabilmente una serie di riff vorticosi, sui quali questa volta si stagliano delle melodie vocali maggiormente ragionate, tendenti a un approccio melodico più marcato, orecchiabile e indubbiamente piacevole. Le atmosfere si tingono poi di un velo drammatico e ipnotico nella risoluta “Victim”, in cui il sound feroce tipico dei Deadly Circus Fire non concede respiro all’ascoltatore, prigioniero di un’incessante colata metallica, anche in questo caso addolcita parzialmente solo da un ritornello riuscito, il quale subito dopo cede il passo ad un intermezzo strumentale atto a porre in risalto le notevoli capacità tecniche del combo britannico.
Momenti elettroacustici dominano poi l’album nella bella “Devil’s Opera”, che segue con coerenza la scia dei brani precedenti, alternando momenti furiosi a sprazzi di melodia sempre godibili e mai banali. Tuttavia, sebbene sia vero che i nostri finora siano riusciti nell’intento di stuzzicare l’attenzione del fruitore, proponendo una manciata di brani ben composti e di elevata difficoltà tecnica, è vero anche che inizia purtroppo a delinearsi una certa staticità nel songwriting del gruppo, il quale sembra voler andare a caccia di un’idea davvero vincente, senza però mai raggiungerla del tutto e scadendo a lungo andare in situazioni comunque giù sfruttate nel corso del disco: questo è quanto si evince dalla scialba “Rise Again”, che purtroppo non riesce ad entusiasmare più di tanto, frenando bruscamente il viaggio della band.
Il gruppo corregge subito il tiro con la più rilassante e breve “Martyrs”, avvalendosi nuovamente di atmosfere intimiste, sottolineate da passaggi elettroacustici, i quali confluiscono pochi istanti più tardi nelle massicce e cadenzate bordate metalliche della potente “House Of Plagues”, che fa il paio con l’altrettanto rabbiosa e suggestiva “Aeden”.
Senza troppe sorprese, la seguente e controllata titletrack, inaugura l’ultima parte di questa release, che con la claustrofobia “Turning The Tide”, assesta un interessante colpo di coda, confermato, infine, anche dalla conclusiva e articolata “Universe”. Alternando ancora con successo momenti introspettivi a sfuriate metalliche ben eseguite, il pezzo riesce a risultare sufficientemente interessante da poter sigillare in modo soddisfacente un album tecnicamente impeccabile e nel complesso piacevole, seppur privo di istanti ed emozioni davvero memorabili.

 

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