Recensione: The Immunity Zone

Di Alessandro Marcellan - 3 Marzo 2009 - 0:00
The Immunity Zone
Band: Andromeda
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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82

Quando ho acquistato “The Immunity Zone”, circa due mesi orsono, mi ero già fatto parzialmente un’idea di cosa dovevo aspettarmi: un allontanamento dall’elegante “leggerezza” presente in “Chimera”, in favore di una maggiore complessità e degli ambienti malinconici propri dell’eccellente “II=I”. Come dire: più vicini al mio disco prediletto degli Andromeda, più lontani dal lavoro del 2006, quello che meno mi aveva soddisfatto proprio per l’opzione lineare che ne stava alla radice.  

Questo nuovo album, in realtà, esibisce tanti e tali elementi da condurci alle conclusioni che leggerete in fondo, ossia che siamo di fronte ad un episodio assolutamente nuovo e a sé stante nella ancor giovane discografia della band svedese. E quanto appena affermato si esplica con nettezza fin dall’opener, che risulta un po’ fuorviante ma che è allo stesso tempo una dichiarazione d’intenti sulla volontà di distaccarsi dal recente passato: “Recognizing  Fate” non brilla certo per ricerca melodica, non ha il piglio rassicurante di “The words unspoken”, né i velati sinfonismi di “Encyclopedia”, né tantomeno l’ariosa immediatezza di “Periscope”… è invece una song ostica, e coraggiosa anche nel posizionamento in scaletta. L’attacco richiama i Megadeth per pochi secondi prima di farci piombare nelle atmosfere più cupe di “II=I”: qui le tastiere spaziali e “horrorifiche” di Hedin si accostano ora a distorsioni di rara pesantezza in questi lidi, ora ad arpeggi solo apparentemente più confortanti, con le evoluzioni batteristiche di prim’ordine del “solito” Lejon, e con vocalizzi filtrati e un refrain quasi inesistente a fare da (giusta) cornice. Non c’è il tempo di prendere confidenza con le sonorità appena introdotte, che i nostri, sapientemente, ci prendono per la gola con Slaves of the Plethora Season”, un mid-tempo che sembra una versione leggermente ottenebrata dei pezzi limpidi di “Chimera”, tanto è diretto e dotato di ottime melodie da ideale “singolo di lancio” (come si sarebbe detto in tempi non lontani). Terzo brano, terza versione dei fatti: “Ghost of Retinas” è un lento che si stende su arpeggi stoppati e basamenti di synth, ma è quanto di più distante da ciò che potrebbe essere una ballad, come ci suggeriscono gli squisiti controtempi di Lejon su canto e chitarra, ed altrettanto dicasi di un minaccioso bridge dove un ipnotico Fremberg sgombera (ma non troppo) le nubi per l’incerta schiarita del ritornello.  

Qui mi fermo un attimo, perché chi (come il sottoscritto) avverte la mancanza di quelle parti strumentali soliste o d’assieme che nobilitavano soprattutto i primi due dischi, non sarà ancora pienamente soddisfatto. Eppure, su brani solo in apparenza lineari, c’è una sezione ritmica inesauribile che la pensa in modo diverso e che pare in grado di compensare certe esigenze “cerebrali”. Ma diamo tempo e fiducia: i momenti solistici di chitarra e tastiera, che si affacciano nei successivi due brani, sono solo un piccolo antipasto. “Censoring Truth” e “Worst Enemy” sono canzoni piuttosto dinamiche e accomunate anche da altre analogie, soprattutto nella varietà della loro costruzione (pur all’interno di una generica forma-canzone), con un andamento che da una strofa all’altra passa in totale scioltezza dal cadenzato, al rilassato, al veloce (tendenzialmente in crescendo con lo scorrere del minutaggio). Se le due tracce precedenti riappacificano la band con i sostenitori della canonicità strumentale del prog-metal, “My Star” è invece un altro pugno nello stomaco, che fa il paio con il pezzo d’apertura per gli accenti di pesantezza, ma che spicca per identità proprio per il suo essere anomala: una sorta di claustrofobica cantilena dalla struttura cantautorale, dall’incedere rallentato, quasi sabbathiano, ottimamente interpretata da Fremberg nel suo tipico approccio “sofferente”, con vaghe dissonanze ed efficaci momenti virtuosi della tastiera e della chitarra di quel Reinholdz che finora (differentemente dal consueto) era stato poco impegnato in questa veste. Laddove la track 6 rimanda alle fabbriche e allo smog della copertina, quella successiva è invece la “Immunity Zone” verde ed in primo piano dell’artwork, e non è certo un caso che le tracce in questione siano attaccate fra loro: l’ariosa e veloce “Another Step”, autentico (e dichiarato) tributo ai Megadeth più tecnici, ne risulta oltremodo valorizzata, dall’attacco in stile Elegy d’annata allo splendido e travolgente ritornello, dalla barocca sfida strumentale Hedin-Reinholdz fino alle ritmiche di Lejon che, messo da parte il fioretto, lavora di sciabola senza perdere in raffinatezza nei fendenti.  

E siamo così giunti all’ultima parte del disco, quella per cui i più pretenziosi avevano finora atteso invano. “Shadow of a Lucent Moon” è un antipasto al capolavoro che seguirà, una sorta di semi-ballad che evoca qualcosa dei Fates Warning nella struttura suddivisa in due parti, arpeggiata e rarefatta la prima, heavy e movimentata la seconda, nella quale (dopo un semi-refrain tecnologico che mi ha ricordato certi Ayreon) vengono sfruttate al meglio le infinite potenzialità della sezione ritmica e riportati in auge quei famigerati stacchi “spaziali” di tastiera  che costituiscono un autentico trademark della band (da cui non pochi gruppi recenti hanno preso spunto). Ma tocca ai 17 minuti di “Veil of Illumination” il compito di appagare l’inappagabile, presentandoci tutto ciò che sono gli Andromeda in una sorta di manuale (o cliché, come diranno gli ultimi irriducibili) su come deve essere scritta una suite: tema chitarra/tastiera ricorrente, riffing movimentato, continue variazioni di ritmo, raffinate ed eleganti melodie neoprog di strofe/refrain manco fossero degli Spock’s Beard metallizzati, e (climax dell’intero album) una spettacolare parte centrale strumentale in bilico tra genio e follia, con i duetti keys-guitar che si legano indissolubilmente fra cuffia destra e sinistra creando una sorta di continuum melodico (arrivando a rievocare lontanamente gli Yes di “Five per cent for nothing”), mentre il carezzevole assolo di chitarra susseguente si prende gioco di chi considera gli Andromeda solo “freddi esecutori”.  

Sia chiaro, “The Immunity Zone” non è il disco che rivoluzionerà il metal progressivo, questo è certo. Ma non è neppure la mera riproposizione di quanto già offerto nei precedenti episodi discografici della band: prende da tutti questi un pezzettino, e subito se ne distacca per divenire, umilmente ma orgogliosamente, un quarto, nuovo e autonomo tassello di un sound “alla Andromeda”. Il più difficile finora, ma forse, proprio per questo, da ascoltare con maggiore attenzione.  

Alessandro Marcellan“poeta73”

Tracklist:
1. Recognizing Fate 7.19
2. Slaves of the Plethoria Season 5.34
3. Ghosts on Retinas 4.28
4. Censoring Truth 6.42
5. Worst Enemy 6.01
6. My Star 5.40
7. Another Step 5.58
8. Shadow of Lucent Moon 7.22
9. Veil of Illumination 17.25

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